Così afferma Michel de Montaigne nei suoi « Saggi ». Questa volta però l’ «impaccio» mi è estraneo perché Bianca Guidetti Serra ha disposto la sua vita secondo un ritmo certo e sicuro, privo di sbavature. Il suo pensiero va letto in trasparenza, come una filigrana sottile costantemente presente nel suo agire.
Già, perché di prassi si trattò e non tanto – o non solo – perché le piacque il “fare”, come ha scritto ed affermato tante volte, quanto piuttosto perché in questa egemonia della prassi come valore in sé -unica in grado di contrastare i lati oscuri del tempo - sembra riassumersi il senso più profondo della vita di Bianca Guidetti Serra.
Cosa lascia alle donne del terzo millennio?
Non solo le molte battaglie legislative – la legge sull’adozione, quella per la messa al bando dell’amianto – ma anche quelle giudiziarie volte a tutelare le donne lavoratrici dalle discriminazioni legate al sesso: prima fra tutte la clausola del “nubilato” che il datore di lavoro faceva sottoscrivere alle dipendenti al momento dell'assunzione, per riservarsi la possibilità di licenziarle qualora si sposassero; fu lei nel 1958 a mettere in piedi il primo processo per la parità salariale contro il potente Gruppo Finanziario Tessile dove le donne guadagnavano, a parità di lavoro, sette lire al giorno, gli uomini dieci. Vinse quella causa e il mondo del lavoro non fu più lo stesso. Pochi anni dopo venne ammessa, per la prima volta, la costituzione di parte civile del sindacato nel processo per le schedature Fiat
; fu la prima – lei che all’inizio della sua carriera di avvocato era una delle tre penaliste italiane quando gli iscritti erano circa un migliaio – a fare processi – e a vincerli – contro la monetizzazione della salute.
Non solo questo, dicevo.
Esistono anche le Madri della Patria, Bianca Guidetti fu una di queste e, anche se non le piacque la “politica dei palazzi”, anche se, come lei stessa ebbe a dire: “In Parlamento non si dovrebbe mai stare più di due legislature. Venire dal mondo del lavoro e tornarci subito dopo, per rimanere in contatto con la realtà del Paese”, sarebbe stato bello e importante vederla sedere tra i Senatori a vita perché la sua eredità più elevata sta nel contributo che ha fornito alla maturazione civile della Repubblica: la tutela legale delle donne ha rappresentato la prassi della teorizzazione – e dell’esortazione - di Piero Calamandrei laddove afferma, nel noto “Discorso sulla Costituzione” tenuto nel 1955, “La nostra Costituzione è in parte una realtà, ma soltanto in parte è una realtà. In parte è ancora un programma, un ideale, una speranza, un impegno di lavoro da compiere.”
Bianca Guidetti non si tirò indietro.
L’ideale di uguaglianza – unico ambiente in cui può pienamente affermarsi la giustizia – fu un filo rosso che attraversò la sua vita, faro che accese già al tempo della Resistenza, da fondatrice e animatrice dei clandestini "Gruppi di difesa della donna e per l’assistenza ai combattenti per la libertà". È del 1977 la pubblicazione del suo capolavoro “Compagne”
, il primo libro significativo sulla “Resistenza taciuta” – come è stata definita da molti storici. Per la prima volta viene data voce a quante non avrebbero ricoperto cariche politiche di rilievo, men che meno avrebbero tratto vantaggi economici dal loro impegno, a quante sarebbero tornate – spesso dopo l’esilio dai propri cari, il carcere, le torture, il confino – alle loro modeste, seppur decorose, vite. Bianca Guidetti ha trattenuto la memoria di quelle esistenze, strappandole all’oblio della storia grande.
Nelle vite raccolte in quel libro troviamo non solo l’esperienza di un ambiente nei suoi aspetti politici, ma anche in quelli di costume che ci restituiscono una testimonianza sociale ed elevano a dignità storica la narrazione orale. Così il tessuto, l’ordito della società si costruisce attraverso i racconti di Teresa, Clementina, Elvira e di tante altre per farsi storia di un intero movimento, racconti non di gesta eclatanti, ma di lavoro duro nelle filande, nei campi e poi di scioperi, di sabotaggi, di scambi di informazioni; il significato della loro testimonianza sta proprio in questo: “l’affermazione e la dimostrazione del valore e della portata della partecipazione dal basso, che si caratterizza e si qualifica per la fedeltà al proprio patrimonio ideale e al contempo per l’attenzione ai problemi immediati e concreti, per il rispetto delle grandi ma anche delle piccole cose.”
La potenza di quello sforzo letterario riguarda la forza e la radicalità grazie alle quali certi discorsi, certe idee danno forma all’esistenza particolare di ciascuno. Questa rivoluzione concettuale lungi dal rimanere confinata nella dimensione della pura teoria, mira piuttosto ad indicarci l’urgenza di un compito pratico.
Per le Compagne di Bianca Guidetti – come per lei medesima – la politica, la Resistenza, non era una scelta e nemmeno una possibilità, era assolutamente necessaria alla socializzazione; se Bianca Guidetti non avesse fatto politica, se non avesse incontrato la politica, la sua vita si sarebbe inserita in un destino medio borghese, in un percorso professionale abbastanza predestinato. Fare politica ha significato – per lei e per le Compagne – prendere in mano il proprio destino.
Furono le leggi razziali del 1938 a metterla, casualmente, come scrisse, di fronte agli orridi ostacoli del fascismo e dell’ingiustizia, ma non casualmente scelse di mettersi al centro della traiettoria di quegli ostacoli, di farne non solo la bandiera dell’esistenza, ma anche la sua cifra politica.
Hannah Arendt ha detto che l’essere umano è un animale politico, che c’è “politica” laddove si costruisce un interesse, uno stare insieme nella vita pubblica e si realizzano delle relazioni significative tra persone. Bianca Guidetti, entrata giovanissima in fabbrica dove scopre i problemi sociali, compie un ulteriore passo: non ha mai smesso di osservare la base antropologica della politica, registrandone i cambiamenti, nonché la base antropologica del nostro modo di pensare il soggetto politico.
È un lavoro che un po’ ha fatto il femminismo – molti anni dopo – ed era necessario, perché se non avesse fatto quel lavoro sulla soggettività non avremmo capito niente della politica delle donne e avremmo continuato a pensare a quello che pensava l’emancipazionismo, ovvero che fare politica significa ottenere più diritti. Sarebbe riduttivo opporre come Bianca Guidetti non fosse “antagonista per principio”
, perché, in realtà, non le interessavano gli obiettivi della politica quanto il come della politica.
Ora possiamo pensare a Bianca Guidetti come a un’icona – appellativo che non le piacerebbe – di un mondo perduto: quell’ormai così lontano secondo Novecento delle grandi battaglie civili vittoriose, lotte non dubitabili, né troppo condizionate da opzioni ideologiche e piuttosto ispirate da un umano e vitale senso di giustizia, da quel dovere del rispetto dell’Altro che le carneficine del fascismo e della guerra avevano reso un valore evidente.
“Compagne” fu scritto per rispondere all’esigenza “di riannodare il femminismo delle giovani generazioni, esploso dopo il Sessantotto, a quelle esperienze che in fondo ne erano una premessa storica e con cui (era) importante non recidere i fili.”
A quella pubblicazione seguirono molte discussioni – che Miriam Mafai definì oziose – circa l’essere o meno di Bianca Guidetti femminista.
Non è questo il punto. Credo che, al di là delle etichette, sia stata in grado di farsi portatrice di una memoria non possessiva che, diversamente, avrebbe bloccato la possibilità di altri punti di vista sul passato suscitati dalle domande di oggi. Se quella memoria fosse stata esclusivo appannaggio di chi aveva direttamente vissuto quegli anni sarebbe stata identitaria, narcisista: è stato certamente più interessante – e determinante - aprirla a relazioni di differenza con le donne più giovani e con il femminismo.
“C’è un confine da tracciare tra parità e omologazione?”
Bianca Guidetti se lo domanda insistentemente durante gli anni di piombo, quando assunse la difesa processuale di moltissimi terroristi e tra loro molte donne.
Anche in quelle terribili vicende non si prestò all’immunizzazione della distinzione tra “buoni” e “cattivi”, tra “perbene” e “permale”, ma le interessava capire perché, attraverso quali motivazioni, quali percorsi politici ed esistenziali tanta parte di una generazione scegliesse la lotta armata e come si declinasse, nell’essere donna, quella parità da lei stessa definita “distruttiva ed autodistruttiva”. Quel che è certo è che in quelle difese ha saputo interpretare uno spaccato della “meglio gioventù” rimasto stretto tra terrorismo, violenza statale, sordità dei partiti e fatica a convertire in passione civile quotidiana le grandi speranze insoddisfatte, in un momento non sospetto, perché facile era guadagnarsi il titolo di fiancheggiatore.
Il tema è certamente amplissimo ed apre un capitolo che ci porterebbe lontano. Quel che qui interessa osservare è che - in assenza di una ricognizione sul senso di quegli anni che ancora deve essere compiutamente affrontata sul piano storiografico
- la grandezza dell’eredità di Bianca Guidetti sta nell’averci lasciato delle domande aperte e degli strumenti critici per trovare le risposte.
Un esempio per tutti. Con il femminismo della differenza avvertiva una certa distanza, quelle donne le sembravano un po’ elitarie, ma sono certa che le più autorevoli esponenti di quel pensiero – per citarne alcune Luce Irigaray, Judith Butler, Luisa Muraro - non avrebbero esitato a riconoscere come proprie, affermazioni quali “una donna ambiziosa che ricopre una carica per sua unica ambizione la trovo pessima come un uomo”
oppure “come movimento delle donne non dovremmo accontentarci delle conquiste di più spazi, poteri, carriere, per misurarci invece con un loro uso diverso capace anche di ripensarne le finalità generali.”
Nell’ultimo periodo della sua vita stava raccogliendo materiale per un libro sulle donne collaborazioniste, non mi sorprende.
E ciò non perché la sfiorassero dubbi revisionisti, ma piuttosto perché conferma quanto urgente fosse il bisogno di comprendere, indipendentemente dall’accidentalità dei territori da attraversare. La sua ricerca sui moventi delle azioni umane, la comprensione dei comportamenti delle persone è sempre stata basata sulla convinzione dell’esistenza di “fili che legano i destini individuali alla storia collettiva.”
Ancora al termine della sua vita cercava una risposta, una via di uscita - non certo una resa - alla dolente domanda che si pone Corrado, il protagonista de “La casa in collina” alla fine del suo narrare: “E dei caduti che facciamo? Perché sono morti? Anche vinto il nemico è qualcuno (e) dopo averne sparso il sangue bisogna placarlo”.
Come si è visto, snodi cruciali del dibattito ancora oggi aperto nei campi numerosi praticati da Bianca Guidetti; a noi il compito di raccogliere quelle provocazioni intellettuali, di osare addentrarci dentro le ambiguità, le contraddittorietà e i rischi di rotture, senza mai smettere di interrogare la storia.
1 M. de Montaigne, Saggi, ed. Bompiani, 2012, pag. 589
2 Di quella vicenda ha ricordato in un’intervista apparsa su “La Stampa” come fosse “Una storia di abusi. Che giustificava la volontà di ribellarsi. Dopo di allora nessuno poté più pensare di trattare così gli operai.”
3 B. Guidetti Serra, Compagne, 2 voll., ed. Einaudi, 1977
4 B. Guidetti Serra, Compagne, op. cit. pag. X
5 B. Guidetti Serra, Bianca la rossa, ed. Einaudi, 2009, pag. 263
6 B. Guidetti Serra, Bianca la rossa, ed. Einaudi, 2009, pag. 233
7 B. Guidetti Serra, op. cit. pag. 234
8 anche per il femminismo siamo in attesa di una storia che metta vicende e posizioni teoriche a confronto fra loro e in rapporto con gli eventi di quegli anni.
9 B. Guidetti Serra, Bianca la rossa, ed. Einaudi, 2009, pag. 234
10 B. Guidetti Serra, Bianca la rossa, op. cit., pag. 240
11 B. Guidetti Serra, Bianca la rossa, op. cit., pag. 18
Settembre 2014
Michela Quagliano
Post scriptum – Un personale ricordo
Era il Natale 1978, avevo da poco compiuto sedici anni. La zia della mia più cara amica mi regalò il libro “Compagne”, pubblicato qualche mese prima da Einaudi; mi disse che sarebbe stato un libro di formazione. Non si sbagliava.
Grazie a quell’incontro letterario imparai l’ideale di uguaglianza e l’urgenza di giustizia che ancora mi appartiene.
Diventare avvocato mi sembrò l’unico modo possibile per realizzare quel sogno adolescenziale.
Ancora oggi è così.
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