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domenica 18 ottobre 2015

Girolamo De Michele su Erri De Luca


La grammatica del dominio e la parola sabotaggio

La grammatica del dominio e la parola sabotaggio
di GIROLAMO DE MICHELE.
«Testimone di una volontà di censura della parola»: così Erri De Luca ha definito se stesso. Non può esserci migliore descrizione di quello che accade non a Erri De Luca, ma attraverso Erri De Luca – se non nelle parole dell’avvocato A.M., che difende la ditta promotrice della causa contro lo scrittore: «chiediamo che la sentenza emani in messaggio, che redarguisca giuridicamente e processualmente». Dunque si chiede che la parola di uno scrittore sia sanzionata in modo esemplare, affinché altri imparino e si regolino di conseguenza: l’inutile ridondanza degli avverbi in -mente risuona come il ribattere del martello sulla testa del chiodo piantato nel legno.
Il capo d’imputazione per aver constatato, rispondendo a una domanda, che gli attrezzi sequestrati ad alcuni compagni «servono a sabotare la TAV» non è “apologia”, ma “istigazione”: la differenza che passa fra un “hanno fatto bene” e un “andate e fate”. Si noti che il reato di istigazione a delinquere «riguarda, o dovrebbe riguardare, solo i comportamenti concretamente idonei a provocare la commissione di altri reati, ferma però la libertà di manifestazione del pensiero garantita dalla Costituzione»: così Giovanni Palombarini [qui], ex Procuratore Generale Aggiunto presso la Corte di Cassazione, che di certo non manca di esperienza e cognizione di causa.
va_di_susa_filo_spinatoChiunque si sia occupato, anche solo per sostenere un esame universitario, di diritto, sa che il diritto è intrecciato con la logica e la retorica, e che questo viluppo non si scioglie: non bastasse il buon senso, si potrebbe citare l’autorità di Norberto Bobbio. La logica (modale) ci insegna a distinguere fra la possibilità e la necessità: e ci ammonisce che chiunque istituisca una connessione fra il presente e il futuro, a meno che non stia enunciando una legge scientifica – ogni corpo immerso in un liquido riceve(rà) una spinta dal basso all’alto ecc. – va a collocarsi nel campo del possibile. Perché l’enunciato possibile assuma valore di necessità, si richiede che l’evento ipotizzato si sia realizzato, e sia empiricamente rilevabile il suo essere avvenuto; altrimenti, che si parli della possibilità che esista un dio, o della possibile presenza di alcuni talleri nelle mie tasche, nessuna formulazione di questa possibilità può dimostrare la necessaria esistenza né del dio, né dei talleri: ce lo insegnò Kant, criticando ex post Anselmo d’Aosta, ma anche, ante litteram, la finanziarizzazione dell’economia. Dunque si richiede che sia avvenuto un sabotaggio, e che sia dimostrata la relazione ci causa-effetto fra il fatto avvenuto e la parola “sabotaggio” pronunciata dallo scrittore.
In aggiunta: perché la parola possa produrre effetti, ovvero slittare dall’enunciativo – “oggi piove” – o dal constatativo – “piove più spesso, negli ultimi tempi” – al performativo, non è sufficiente l’analisi della parola proferita: è richiesto un contesto, e all’interno del contesto un ruolo dell’attore che pronuncia la parola, fra loro coerenti. Tutti i cittadini hanno libertà di parola (si dice): ma non tutti hanno il potere di far si che le parole “vi dichiaro marito e moglie” producano un effetto nel mondo, e nei due soggetti ai quali la parola è indirizzata. D’altro canto, lo stesso sindaco o sacerdote devono usare parole precise e univoche: “d’ora in poi fate coppia” non sarebbe accettabile come formula che sancisce l’evento del matrimonio.
Dunque: senso preciso delle parole, ruolo dell’enunciatore, relazione fra la parola e l’evento.
La parola “sabotare” ha più di un senso; poiché il Vocabolario Treccani è stato citato in processo e nell’autodifesa di Erri De Luca [La parola contraria, 2015], apriamolo e leggiamo:
1. distruggere o deteriorare gravemente edifici e impianti, opere e servizî militari, intralciare gli spostamenti e i rifornimenti di truppe nemiche, impedire o limitare il funzionamento di servizî pubblici, come azione di lotta o di rappresaglia economica, politica o militare
2. intralciare la realizzazione di qualche cosa, o fare in modo che un disegno, un progetto altrui non abbia successo.
«Rivendico il diritto di adoperare il verbo sabotare coma pare e piace alla lingua italiana, Il suo impiego non è ristretto al significato di danneggiamento materiale, come pretendono i pubblici ministeri. Per esempio: uno sciopero, specialmente a gatto selvaggio, senza preavviso, sabota la produzione di un impianto, di un servizio. [...] L’accusa contro di me sabota il mio diritto costituzionale di parola contraria. [...] I pubblici ministeri esigono che il verbo sabotare abbia un solo significato. In nome della lingua italiana e del buonsenso nego il restringimento di significato». Così De Luca: che rivendica, con spirito meridionale, l’esercizio del diritto di malaugurio: «che la linea Tav in Val di Susa possa essere sabotata, che possa non sbucare dall’altra parte e da nessuna parte. Che un governo di normali capacità di intendere e volere la lasci incompiuta. Che possa essere dichiarata disastro ambientale».
Quello che i PM – e con loro l’avvocato di parte civile – pretendono, non è la condanna di una parola contraria, ma, attraverso tale condanna, il potere di interpretare – di ritagliare, decontestualizzare, risemiotizzare – le parole avverse, ostili, o anche solo sgradite. E anche, il potere di suggerire quali parole, quali figure retoriche, quali citazioni usare, e quali no: «Qualora non avesse voluto commettere questo reato avrebbe potuto citare gli esempi biblici che ha citato in seguito, come le mura di Gerico che crollano solo per le voci e le trombe» [qui]. Una vera e propria grammatica del dominio, all’interno della koiné del Partito della Nazione e delle Grandi Opere Inutili, che emargina le voci di opposizione e riveste quelle consenzienti di panni curiali.
Chi è che dice “sabotare”? Uno scrittore. Si badi bene: il reato di istigazione esiste non perché qualcuno ha detto “sabotare”, ma per il fatto che a dirlo è uno scrittore noto, conosciuto al pubblico, che si presume venda una certa quantità di libri. Lo hanno chiarito per ben due volte i PM: «La libera manifestazione del pensiero di fronte a una manifestazione che ha contenuto intrinseco di illiceità, com’è l’istigare, non può trovare tutela. Quelle parole non sono parole pronunciate da uno qualunque. Quando il signor De Luca parla, le sue parole hanno un peso determinante». Così il PM Rinaudo, nella requisitoria del 21 settembre. Ma in precedenza, all’uscita dall’udienza preliminare del 5 giugno 2014: «Al barbiere di Bussoleno possiamo perdonare se dice di tagliare le reti, a un poeta, a un intellettuale come lui, no» [qui].
Quanti clienti avrà il barbiere di Bussoleno? Non è dato saperlo, ma si può presumere meno dei lettori di Erri De Luca. E soprattutto: chi mai sarebbe così sciocco, suggeriscono i PM, da prestar fede a ciò che dice un “vile meccanico” aduso a lavorare con le mani e non col bene dell’intelletto?
Negli anni Settanta, per costruire l’impianto inquisitorio contro Toni Negri e gli altri compagni del 7 aprile, il giudice Calogero dovette, a sostegno del suo teorema – o “calogerema”, come argutamente disse il filosofo Enzo Melandri – figurarsi l’esistenza di una Organizzazione senza nome, la “misteriosa O.”, che sosteneva sovraordinasse autonomia e Brigate Rosse, e figurarsi al suo vertice Toni Negri: dovette, insomma, narrare un’Histoire d’O., collegare a questa narrazione sparsi reati suggeriti da zelanti pentiti, e distribuire ruoli da protagonista principale, secondari e deuteragonisti vari. E ben prima che questo calogerema crollasse miseramente, apparve e ci apparve un obbrobrio giuridico, prima ancora che logico: ma almeno si fantasticavano relazioni causali verificabili (che infatti furono verificate).
Ancora negli anni Settanta, ci apparve un’enormità inquisitoria la persecuzione dello scrittore e militante rivoluzionario Peter Brückner, per essere stato un suo libro ritrovato in possesso di Ulrike Meinhof: ma almeno c’era un libro che mancava da uno scaffale, ed era in un altro.
Oggi ai PM e alla parte civile non serve né una relazione di causa-effetto, né un indizio. De Luca ha detto “sabotate”, la parola “sabotare” è stata rinvenuta in documenti successivi all’intervista incriminata, sabotaggi sono avvenuti: dunque De Luca ha istigato al sabotaggio. Si badi: non viene esibito un documento nel quale è scritto qualcosa del tipo “come afferma De Luca, la Tav va sabotata”, o “De Luca ce l’ha insegnato”: basta la parola, come diceva un noto venditore di purganti. La parola “sabotare” è un bene proprietario esclusivo di Erri De Luca, ne porta lo stimma, è indice certo di relazione, come lo sarebbe un’impronta digitale o un frammento di DNA? In tutta evidenza, i PM si arrogano, attraverso la condanna a Erri De Luca, il potere di stabilire la proprietà delle parole e il modo in cui esse si propagano, senza bisogno di collegarle a fatti concreti, senza distinguere, per dire, fra parola ed enunciato: una concezione davvero povera dei rapporti fra cose e parole, sia detto per inciso ma non per caso – ma che te lo dico a fare?
val_di_susa_castagnetoDopo l’intervista si sono prodotti episodi… e prima? Post hoc, propter hoc: dopo l’invenzione del fazzoletto, si è cominciato a soffiarsi il naso con esso – prima, non ce lo si soffiava?
Nella primavera 2013 si sono tenute a Bussoleno due grandi e pubbliche assemblee popolari – i cui video, pubblicati dagli stessi No Tav, possono essere consultati qui e qui –, nel corso delle quali la parola “sabotaggio” è stata pronunciata, declinata e interpretata con molta precisione, esplicitando i riferimenti a Gandhi, Nelson Mandela e Aldo Capitini: «il sabotaggio è assalto al funzionamento di un servizio, di un’industria, di un’impresa pubblica o privata, con danno o distruzione, e quindi oltre il limite della legalità. È essa una tecnica della non violenza? È stato risposto che essa lo è solo quando non vi è nessun rischio per l’esistenza di esseri viventi, particolarmente umani. È una delle misure di carattere estremo, quando il danno che viene apportato è superato dal danno che il funzionamento di quel servizio apporta». All’indomani di quelle assemblee fu attuata un’iniziativa di protesta consistente in alcune scritte fatte con le bombolette spray: un’iniziativa che «dà immediatamente seguito al dibattito sul sabotaggio del cantiere e delle ditte coinvolte in questa devastazione. Sabotare e boicottare queste ditte è giusto ed è legittimo», si legge nel comunicato emesso dal campeggio No Tav di Venaus. La parola “sabotaggio”, e anche la sua declinazione, era già presente nelle prese di parola della comunità di Bussoleno: non c’era bisogno di andarla a leggere sull’”Huffington Post” tre mesi dopo.
Chi voglia recarsi a Bussoleno, anche senza frequentare la bottega del barbiere, provi a entrare dal tabaccaio piuttosto che prendere un caffè al bar: e si sentirà osservato, non dallo sguardo fascistoide e truffaldino del solito padre Pio, come accade in mezza Italia, ma da quello di partigiani e partigiane armate, le cui foto decorano e abbelliscono gli ambienti: quella di Bussoleno e della Valle non è certo gente che ha bisogno di farsi dire da altri cos’è giusto fare, e cosa no. E quali relazioni si istituiscono fra la coscienza dell’ingiustizia, e i comportamenti conseguenti.
Ad esempio: cancellare con una spianata di cemento il più antico cimitero merovingio delle Alpi Occidentali, perché alle truppe d’occupazione faceva comodo un parcheggio per i blindati, non è sabotaggio al patrimonio culturale? Ad esempio: portare e abbandonare nei boschi i rocchi di filo spinato dalle farfallette d’acciaio affilate come rasoi usato per la recinzione degli accampamenti dei gendarmi, rendendo i boschi a rischio per i bambini e facendo strage della fauna, o radere al suolo un castagneto di 300 anni davanti all’insediamento delle truppe d’occupazione non è sabotaggio dell’ambiente? Non sono, questi comportamenti, istigazione a una reazione uguale e contraria in difesa del territorio e dei suoi beni?
«Ormai da qualche tempo si ha la sensazione di una complessiva forzatura dell’azione penale quando si leggono le imputazioni ascritte ad alcuni intellettuali o che l’autorità giudiziaria torinese formula nei confronti di giovani e meno giovani protagonisti delle lotte contro la costruzione della linea ferroviaria. Quasi che l’autorità giudiziaria torinese si considerasse investita non solo e non tanto del compito di reprimere i fatti penalmente illeciti, ma anche, immediatamente, della tutela dell’ordine pubblico, così contribuendo, a fianco di tutta una serie di poteri forti interessati alla realizzazione dell’opera, a che i lavori si svolgano rapidamente» – così ancora l’ex procuratore Palombarini. Le parole, le cose e gli enunciati della pubblica accusa al processo De Luca non fanno che rafforzare questo ponderato giudizio sul divenire-gendarme della procura torinese, e aggiungere ombra su ombra al ruolo che gli operatori degli apparati giudiziari si arrogano.
Così come aggiunge ombra su ombra la pavidità di buona parte del ceto intellettuale italiano, incerto fra l’ignavia e una pelosissima solidarietà cui si premettono giudizi negativi su De Luca scrittore dannunziano o sessantottino o quant’altro: meglio occuparsi di altro, o lasciarsi aperta la porta di una mezza ritrattazione attraverso la figura retorica che “ma anche no”, per quei moderatori della propria moderazione che hanno il problema di avere meno piedi della quantità di scarpe che sarebbe d’uopo calzare per non mancare ad alcuno dei salotti letterari che contano. Del resto, quando nel 2013 per la prima volta a Bussoleno fu organizzata un’iniziativa di scrittori in sostegno della Valle – Una montagna di libri –, risuonò forte e chiaro il monito dell’allora premier Monti, per il quale «silenzio del fronte intellettuale favorevole alle grandi opere si può capire visto che la questione crea un forte imbarazzo nella sinistra, come si può anche vedere da chi ci mette la faccia e da chi invece sceglie altre strade o la via dell’ambiguità». Il silenzio attuale spiega quello pregresso: l’ammuina davanti a questioni di poco rilievo come il diritto alla presa di parola contraria e il dovere della militanza intellettuale in direzione ostinata e contraria; ma anche, l’impegno forte e chiaro, senza e e senza ma, nelle discussioni sulla vera identità di Elena Ferrante, sul premio Strega bene comune e sul perché anche quest’anno porcazzozza il Nobel per la letteratura è andato alla persona sbagliata.
val_di_susa_necropoli_merovingiaSia consentito concludere con un aneddoto personale. Quando scrissi il romanzo Scirocco, narrai l’uccisione di un personaggio che (è detto nella nota finale) era ispirato a Yves Guérin-Sérac, figura di spicco dell’eversione neofascista europea. E scrissi con chiarezza che la morte del personaggio era «un auspicio»: così facendo, esercitavo il mio diritto al malaugurio. L’editore preferì sottoporre il manoscritto a un legale, per il timore che il romanzo potesse essere oggetto di querele. L’avvocato mi consigliò di cancellare un paio di parole – una in particolare: dalla frase di Stephen King «in un mondo in cui ci sono Michael Jackson e quello stronzo di Axel Roses, tutto è possibile», di togliere la parola “stronzo”, perché la vicinanza di questa frase col nome di un giornalista italiano noto per la sua suscettibilità avrebbe potuto portare il tale a sentirsi chiamato in causa (non mi fu chiaro se la querela avrebbe riguardato solo me, o anche il Re: fossi stato certo della seconda ipotesi, avrei lasciato la parola solo per poter sedere allo stesso banco degli accusati con lui). L’uccisione del figuro fascista, invece, non era un problema.
Quell’avvocato che mi ha garantito nell’esercizio del mio diritto di malaugurio (e che ho ringraziato per la consulenza legale) è lo stesso A.M. che oggi, patrocinando la ditta italo-francese, chiede «che la sentenza emani in messaggio, che redarguisca giuridicamente e processualmente». Il confine fra il diritto di parola contraria e l’incriminazione e condanna concerne forse (ipotizzo) la differenza delle parcelle che il cliente è in grado di pagare?
La giustizia non si può comprare!, dice il borgomastro in La visita della vecchia signora di Dürrenmat: tutto si può comprare, risponde Claire, la vecchia signora – e così sarà.
Nel dramma teatrale: ma forse anche Dürrenmat è un istigatore.
le foto che illustrano questo articolo sono state scattate dall’autore in Clarea: raffigurano (dall’alto in basso)  la scritta “ALLORA NAPALM” giustapposta da un gendarme a “La Maddalena sarà il vostro Vietnam”, il filo spinato gettato nel bosco, la distruzione del castagneto e la spianata che ha ricoperto il cimitero merovingio


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