SOLIDARIETA' CONCRETA

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mercoledì 4 giugno 2014

Una montagna di libri contro il tav vol. III 6-7-8 giugno 2014: tavola rotonda sabato ore 10.00 materiali preparatori


LE ALPI, LA CRISI, LA RIVINCITA DEL LOCALE

Materiali preparatori alla Tavola rotonda – Bussoleno – 7 giugno 2014
«Una montagna di libri contro il Tav in Valsusa» - terza edizione

I testi che seguono sono degli estratti selezionati da scritti degli autori che parteciperanno all’incontro. Tali frammenti non vogliono minimamente rappresentare una “sintesi” del loro pensiero, delle loro ricerche o posizioni. Vogliono semplicemente essere degli spunti – tratti dalle loro stesse parole – utili al dibattito, in quanto toccano diverse delle questioni da cui ci piacerebbe che questo momento di confronto prendesse vita e si sviluppasse, con il contributo di tutti i partecipanti.

La profonda crisi della “civiltà occidentale” mostra tutta la fragilità e inadeguatezza e del suo sistema tecno-burocratico di fronte ai disastri, alle ingiustizie, ai conflitti in corso ovunque. L’amministrazione tecnocratica di un presente che si vorrebbe eterno si fonda sulla sempre più pervasiva artificializzazione della vita e sulla desertificazione del territorio, il quale da luogo del complesso rapporto organico uomo-natura, è ridotto ad asettico sito per la forsennata riproduzione di profitto e per l’attività di lavoratori/consumatori sempre più sradicati e omologati. Se, come ogni civiltà, anche la nostra è destinata all’estinzione (e sono ormai i suoi stessi dirigenti/funzionari ad annunciarne l’imminenza con angoscia), quello che verrà dopo dipende dalle dinamiche in atto sui territori nel corso del suo declino. Cioè oggi
Anche in questo senso ci troviamo su un confine, in bilico tra le opportunità di rinascita offerte dalla disgregazione degli apparati di dominio, e l’ulteriore rovina nel baratro della catastrofe ecologica e sociale. Perciò avvertiamo l’urgenza di un ripensamento radicale delle forme organizzative, dei processi decisionali, delle attività umane, così come delle categorie che ne sono espressione. 
Territorio, identità, autonomia, sovranità, sono questioni che, nell’attuale crisi degli Stati nazione e della globalizzazione capitalista, emergono in tutta la loro importanza e problematicità, e con cui volenti o nolenti dobbiamo fare i conti.
Ne parleremo in un dibattito aperto, una sorta di tavola rotonda con studiosi che hanno già affrontato tali questioni – con approcci e da prospettive diverse – partendo dal territorio in cui viviamo (le Alpi, con la loro storia e le loro specificità), verso una prospettiva più generale di rivincita del locale, delle bioregioni e delle comunità umane, con il loro bagaglio di solidarietà, condivisione, resistenza e autonomia.




Enrico Camanni

[Dal XVII secolo] non si può più pensare alle Alpi come a un mondo a sé. Il nuovo ordine politico conduce al declino delle antiche economie autosufficienti e la catena alpina diventa linea di confine in cui gli Stati si appropriano, da una parte e dall’altra della linea di cresta, di «tutte le acque che scorrono a valle». Il centralismo burocratico degli Stati nazionali inibisce molte speranze delle comunità alpine: (…) «Il diritto all’autogestione di molte valli alpine, che era stato affermato contro i signorotti feudali, si svuotò di contenuti di fronte ai nuovi Stati e vi si dovette rinunciare. Contemporaneamente le Alpi diventarono sempre più una zona di confini, cosicché una regione a economia e cultura relativamente unitaria si disgregò e restò emarginata ai limiti dei nuovi grandi Stati» (W. Bätzing, L’ambiente alpino, 1987).
Quella civiltà alpina che affonda le radici in epoca preistorica, e che ha saputo evolversi in modo lungimirante ed equilibrato fino al Medioevo, armonizzando le ragioni dell’uomo con quelle dell’ambiente, ha cominciato a impoverirsi non tanto per le difficoltà oggettive della montagna (i ghiacciai hanno sempre oscillato nei loro movimenti; la terra è sempre stata più avara in montagna che in pianura, ma compensata dai pascoli, dalle abbondanti foreste e dalle risorse minerarie; le popolazioni delle Alpi hanno spesso trovato risposte geniali alle congiunture negative), quanto perché sono mutati gli scenari politici e le montagne hanno subìto governi sempre più lontani e disinteressati. L’impoverimento e lo spopolamento delle alte valli non sono «naturali» conseguenze del carattere severo dell'ambiente alpino, con cui i popoli delle Alpi hanno imparato a convivere con risultati culturali sorprendenti, ma sono piuttosto il risultato dell'isolamento politico ed economico che, anziché correggerle, tende a esaltare le negatività ambientali.
Il Settecento è il secolo che impone la supremazia dei governi centrali sulle periferie, ma è anche il secolo della scoperta illuministica e romantica delle Alpi, che, paradossalmente, si fonda su una visione emancipata delle popolazioni alpine. Il libero e buon «selvaggio» viene contrapposto al cittadino corrotto [vds. Albrecht von Haller e J.J. Rousseau].
(…) In pochi decenni le Alpi vengono promosse a oggetto delle indagini illuministiche e a rifugio della spiritualità romantica. (…) Le cascate e i ghiacciai alpestri diventano ricercate mete di escursioni, destando la meraviglia dei viaggiatori e impreziosendo con i loro «deliziosi orrori» i taccuini dei borghesi e degli artisti che hanno la ventura di addentrarsi nelle vallate. (…) 
L'affermazione del turismo coincide con la crisi dell'economia rurale alpina e con una progressiva riduzione della popolazione. «L'apertura del sistema chiuso dell'autosufficienza ai grandi spazi economici smantella la comunità sociale tradizionale». (…)
Così i giovani fuggono verso le città e i vecchi restano a presidiare villaggi fantasma popolati di ricordi. Non nascono più bambini e si chiudono le scuole di montagna. Anche l'industria idroelettrica, mirabolante promessa per la montagna del Novecento, non è altro che un tampone provvisorio allo spopolamento. I grandi invasi che sommergono i paesi e i pascoli, compromettendo l'equilibrio idrico delle valli, incidono profondamente non solo sull'economia tradizionale alpina, ma anche e soprattutto sul paesaggio. Per di più la progressiva automatizzazione degli impianti riduce notevolmente il vantaggio per le popolazioni. Parafrasando il significato della sigla ENEL, tra i valligiani si ironizza: «Esporta nostra energia lontano».
Il fenomeno migratorio assume dimensioni particolarmente sconvolgenti nelle valli del Cuneese, dove in poco più di un secolo si assiste alla morte di una civiltà. La Val Grana perde il 75 per cento degli abitanti, la Valle Stura il 71 e la Val Maira raggiunge l’83 per cento. Un’ecatombe.
«Nelle Valli Maira, Varaita, Po – scrive Nuto Revelli al termine della più importante inchiesta sul mondo contadino del secondo dopoguerra (Il mondo dei vinti) – le situazioni e i problemi si ripetono con una monotonia drammatica. Le comunità che si sfrangiano, le scuole che chiudono, la posta che si ferma al capoluogo, l’isolamento che cresce giorno dopo giorno. Nelle nostre valli non sono in funzione le “camere a gas”, così l’immagine del genocidio appare forse eccessiva alla folla dei “benpensanti”, dei turisti distratti, dei gerarchi dispensatori di elemosine, dei colonialisti. Ma i fatti parlano, e dicono che non c’è più spazio per gli ignoranti, per i mediocri, per le furbizie elettoralistiche. È l’ultima volta che il problema della montagna si ripresenta come scelta di civiltà». (…)
Dietro le complesse dinamiche politiche ed economiche che, negli ultimi due secoli dello scorso millennio, hanno determinato la crisi dell'economia alpina e la fine di una civiltà sopravvissuta – almeno nei suoi caratteri fondanti – per circa cinquemila anni, c'è un nemico ben più forte di ogni potere e di ogni congiuntura: il modello consumistico urbano.
È l'imperativo del «tutto e subito» che si sostituisce alla millenaria prudenza dei montanari, all’atavica diffidenza verso le scorciatoie, alla religione dell’alpe lenta e austera (…).
Quel che non era riuscito in cinquemila anni alle valanghe, alle frane, agli inverni, alle alluvioni, alle epidemie, agli eserciti, ai tiranni e agli invasori, riesce nell'ultimo minuto dell'orologio alpino a un modello così forte e persuasivo da stravolgere il territorio e soffocare le voci dissenzienti.
Il crogiolo di popoli ed esperienze che, immigrazione dopo immigrazione, si è sedimentato nelle Alpi apportando nuove tecniche e nuove idee, e costruendo una singolare identità della diversità, viene sradicato da un invasore che dispone di un potere subdolo e micidiale: il potere di omologare anche le montagne.

Estratto da Enrico Camanni, La nuova vita delle Alpi, Bollati Boringhieri, Torino, 2002




Carlo Grande

Le valli sono state culle di resistenti, ultima speranza per banditi e perseguitati, piccole patrie per le quali si scatenava la ribellione. Nell’Alta Valsesia, ad esempio (dove agli inizi dell’Ottocento visse la «stria Gatina», l’ultima strega trucidata in Italia, vedova poverissima accusata di aver lanciato un maleficio e ammazzata di botte perché si ribellò al taglio di un grande albero), salirono le Brigate Garibaldi e prima ancora Dolcino, il grande eretico del Trecento. Con i suoi seguaci, detti apostolici, raggiunse Campertogno e la Parete Calva, asserragliandosi sul Monte Rubello, cioè dei «ribelli». Fra queste rocce remote ebbe luogo la sua ultima resistenza, si compì una storia, lunga due anni, di sofferenze e torture, roghi e repressione spietata. La maggior parte dei dolciniani fu trucidata: Margherita da Trento, Dolcino e il luogotenente Longino Cattaneo finirono sul rogo.
La loro accanita resistenza sulle montagne biellesi fu soprattutto guerriglia condotta dalla gente del posto, poveri e umili montanari che non sapevano di latino, rustici privi di beni materiali che sposarono la strada di Dolcino per salire a Dio: un cristianesimo mite, un sentiero dei semplici, antielitario, che esaltava la povertà e la comunità, la rinuncia e la sofferenza, il rifiuto del mondo e delle mondanità. «Porcari, guardiani di vacche, cani bastardi», li chiamavano, «gente che costruisce la Sinagoga di Satana». Avevano un modo drasticamente diverso di intendere la civiltà. (…) I soi scontri e le sue sofferenze somigliano a quelle di tanti valligiani, ricordano i patimenti della nazione alpina. Ci dicono che quelle idee non muoiono, che continuano a ritornare. Gli Apostolici in Valsesia non furono smarriti, ma solo sconfitti. Aspettano e sperano con noi, nella Valle di Giosafat, promessa di resurrezione.
Ma prima bisogna patire in questa valle di lacrime, dalla quale non si passa senza pedaggio. Come avviene nella Valle di Susa, in lotta contro gli sprechi dell’Alta Velocità. (…)
(…) L’inno di pietra alla pax romana è sul punto più elevato e strategico dell’antica via Julia. «Cesare Augusto imperatore» vi si legge «figlio del divino Cesare, grande Pontefice, nel XIV anno della sua potenza imperiale» ricorda che tutti i quarantacinque popoli alpini, dall’Adriatico fino al mare Ligure-Tirreno, «sono stati sottomessi all’autorità del popolo romano».
Poco rimane, duemila anni dopo, di quell’enorme costruzione, un’immensa torre cilindrica un tempo alta più di cinquanta metri. È scomparsa la statua in bronzo di Ottaviano Augusto, è scomparso l’Impero, travolto dai «barbari». Restano, duemila anni dopo, le montagne e le sue genti, che continuano a subire l’imperio della pianura.
Noi che le amiamo vorremmo vederle rinascere con il molto di buono che trasmetteva la loro civiltà. Per millenni la montagna è rimasta ai margini della storia, avvolta in un grande Medioevo: colonizzata e spartita, lontana dalle classi e dai despoti, concentrata su una cultura che si specchiava nell’alternarsi delle stagioni e della fatica umana, in un modo di vivere sostanzialmente comunitario, fatto di tempo condiviso, di assise nelle piazze dei paesi all’ombra dei grandi tigli.
La montagna, nata dal ciclopico travaglio di zolle continentali, temprata dallo scontro estremo dei venti, dalla pioggia e dai ghiacci, saprà rinascere sotto forme nuove. È abituata al confronto con i poteri forti di fondovalle: Torino, Milano, Verona, Venezia, città che «comandano» gli accessi alle valli della Dora Riparia e della Dora Baltea, del Ticino, dell’Adda, dell’Adige, del Piave, del Tagliamento. Grandi città che ora le voltano le spalle come forse non avviene in centri più piccoli, altrettanto debitori alla montagna delle loro ricchezze: Susa, Ivrea, Aosta, Bellinzona, Como, Sondrio, Trento, Bolzano, Belluno, Tolmezzo. Antichi capisaldi dove la montagna è ancora viva, presente, vissuta.
Forse saranno proprio certe avanguardie cittadine a rivitalizzarla (non certo le masse che la soffocano per praticare qualche ora di sci) insieme con i giovani che ancora ci vivono, quelli che sanno conservare la memoria dei padri e dei nonni, che sanno resistere alle sirene della società consumistica, che non vogliono isolarsi in una fattoria o in un alpeggio, ma rifiutano la trappola dell’arricchimento rapido, delle auto di lusso, dell’alcolismo, della tossicodipendenza e dei suicidi che devastano tante valli, specialmente le più ricche.
Ragazzi che non vogliono passare la vita servendo il piattello allo sky-lift e panini a bar, ma che sanno affrontare la fatica, gli studi, che sognano nuove vie, l’agricoltura biologica, l’allevamento a misura d’uomo e di animale, la sobrietà dei consumi, la qualità dell’abitare, una felicità sostenibile. Ce ne sono ancora, c’è uno strano via vai sulle nostre montagne…

Estratto da: Carlo Grande, Terre alte. Il libro della montagna, Ponte alle Grazie, Milano, 2008.




Adriano Cirulli

Sul finire degli anni ’80 diversi studiosi anticipavano la progressiva perdita di rilevanza politica e sociale delle identità etnico-nazionali in seguito all’affermarsi dei processi di globalizzazione e transnazionalizzazione. Nonostante tali previsioni, in molti Paesi le mobilitazioni regionaliste e/o etnonazionaliste rappresentano dei fenomeni di crescente importanza, che si sono posti all’attenzione degli studiosi delle scienze sociali. 
Alla base di questa riattivazione dei partiti e movimenti regionalisti/nazionalisti e populisti si trovano i profondi cambiamenti sociali, culturali e politici collegati al processo di globalizzazione, e in particolare: la nuova rilevanza del territorio nella costruzione delle identità collettive (da cui si formano anche le identità politiche); le incertezze e paure (più o meno manipolate ad arte) collegate ai flussi migratori; la crisi del modello di Stato sociale emerso nel secondo dopoguerra, e la conseguente crescita del disagio nei settori socialmente più svantaggiati, in seguito all’affermarsi di un’economia incentrata sempre di più sulle speculazioni finanziarie.
Spesso l’opinione pubblica e i media si soffermano solo sui casi più drammatici, caratterizzati da forme violente di conflitto come, ad esempio, i Paesi Baschi, l’Irlanda del Nord, i Balcani, il conflitto israelo-palestinese o il Kurdistan. Ciononostante, sono molti i casi di mobilitazione politica delle identità territoriali sub-statali, a livello europeo ed extraeuropeo, che pur non presentando forme di violenza politica, hanno svolto e svolgono un ruolo trainante nella vita politica di diversi Paesi. (…)
In Italia, diversamente da quanto è avvenuto in altri Paesi, non si è riscontrata la stessa attenzione delle scienze politiche e sociali verso questa tematica. Nonostante lo sviluppo negli ultimi anni di un dibattito sulla possibile riforma federalista dello Stato, sui rapporti tra nord e sud e sul significato dell’identità nazionale italiana, soprattutto in relazione all’affermarsi della Lega Nord come attore politico di rilievo, non si è generata una congruente attività di ricerca e riflessione scientifica sulla politicizzazione delle identità territoriali. (…) Nel contesto italiano la possibilità di effettuare una riflessione ponderata e di qualità sugli aspetti problematici del processo di unificazione nazionale si trova spesso schiacciata tra l’incudine del discorso leghista e il martello del discorso “patriottico” nazionalista italiano che si è generato negli ultimi anni in reazione al rafforzamento della Lega Nord. (…)
Un aspetto che ha tradizionalmente caratterizzato l’ambito degli studi sui nazionalismi e i regionalismi è il “caos terminologico”, per il quale non si riesce a trovare accordo tra i diversi studiosi rispetto ai termini e ai concetti chiave. Come ha efficacemente sottolineato Walker Connor: «In questo mondo di Alice-nel-paese-delle-meraviglie, in cui nazione usualmente significa Stato, in cui Stato-nazione usualmente significa Stato multinazionale, in cui nazionalismo usualmente significa lealtà allo Stato, e in cui etnicità, primordialismo, pluralismo, tribalismo, regionalismo, comunitarismo, campanilismo e subnazionalismo usualmente significano lealtà verso la nazione, non dovrebbe sorprendere che la natura del nazionalismo rimanga essenzialmente inesplorata». 
Nei suoi documenti ufficiali e negli eventi e manifestazione pubbliche, la Lega Nord spesso tende a mettersi in relazione con altri movimenti regionalisti/indipendentisti europei, presentandosi come parte di un ampio movimento per l’Europa dei Popoli o delle piccole patrie. Ma questa realtà in crescente affermazione dei movimenti regionalisti e/o indipendentisti europei è estremamente variegata, e il populismo regionalista della Lega ne è solo una delle diverse espressioni che assume. (…)
Tra la fine degli anni ’90 e i primi anni 2000 [ad esempio] l’izquierda abertzale ha portato avanti una campagna per la “carta di identità basca”, un documento di identità formalmente non riconosciuto dalle autorità spagnole e francesi, ma riconosciuto come valido da molte istituzioni locali a guida nazionalista (non solo di sinistra) e da importanti esercizi commerciali. In pratica una originale campagna di disobbedienza civile e di affermazione dell’identità nazionale basca. Per ottenere il documento era necessario dimostrare solo di essere residenti nei territori baschi (compresi anche quelli francesi), e non di avere un pedigree razziale basco puro. (…) Concezione che si proietta con l’idea di una cittadinanza basca basata sulla residenza in un Paese Basco indipendente. 
Questo episodio indica perfettamente la differenza tra il discorso sull’identità e l’appartenenza del nazionalismo basco – ma anche di altri movimenti etnoterritoriali che non si sono potuti analizzare qui come il catalano, lo scozzese o il bretone che hanno sviluppato concezioni molto simili a quelle del nazionalismo basco – e l’idea di identità, comunità e appartenenza alla base del pensiero leghista (con buona pace di Borghezio e dei suoi richiami al caso basco durante i comizi, o delle bandiere scozzesi che sventolano nei diversi raduni leghisti).
Il regionalismo populista della Lega segue il modello del neopopulismo razzista e xenofobo che purtroppo si sta diffondendo in Europa negli ultimi due decenni, e non ha niente a che spartire con altri movimenti regionalisti o indipendentisti in cui l’autogoverno e la difesa del territorio è strettamente associata alla trasformazione sociale e all’estensione dei diritti e della democrazia. Avere chiara questa distinzione è necessario, non solo da un punto di vista scientifico, ma anche nel nostro agire come attori sociali e politici.
(…) I nuovi movimenti sociali e politici – così come il riadattamento dei “vecchi” alla nuova situazione – non sono tutti espressione della manipolazione delle paure e incertezze dello scenario sociale ed economico attuale in senso reazionario, o xenofobo o antidemocratico. Ad esempio, se si considera la nuova fase di politicizzazione del territorio, si può verificare come questa ha prodotto tipologie di movimenti (…) che, partendo dalla difesa del territorio contro la speculazione edilizia o l’impatto di grandi opere, e dalla critica del modello di sviluppo dominante, hanno prodotto nuove pratiche e discorsi di democrazia partecipativa e deliberativa, come nei casi del movimento contro la Tav o contro la costruzione del ponte sullo stretto di Messina…

Estratto da Adriano Cirulli, La Lega Nord tra etnoterritorialità e populismo (in Aa.Vv. Lega: se la conosci la eviti, se la capisci la combatti, Festa popolare antileghista, Varese, 2011).




Marco Aime

Riflettere sulla propria società, utilizzando gli strumenti a disposizione dell'antropologo, è un tentativo di condividere con gli altri membri del gruppo di appartenenza alcune possibili letture dei punti di rottura che segnano quella società. E di crepe nella società italiana attuale se ne riscontrano tante…
Nonostante il movimento No-tav sia inevitabilmente legato al territorio e alla sua difesa ed esprima istanze che potremmo, anche se riduttivamente, definire ecologiche,  nelle parole dei protagonisti non compare mai l’equazione “terra-sangue”, non c’è un primato della “valsusinità”. Al contrario, nelle interviste e nelle conversazioni fate in valle, ho spesso sentito sostenere, con declinazioni diverse, che «valsusini si diventa». Pertanto non un “noi” costruito su un principio di autoctonia, come quello padano, ma un noi che è frutto di un processo, di un’adesione a una idea. L’identità espressa dal movimento No-tav più che territoriale è politica e il “noi” valsusino un noi aperto e plurale. A testimonianza di questo è la grande pluralità di sguardi e di posizioni che attraversa il movimento, in cui si incontrano persone che militano nella sinistra, ma anche qualche più o meno ex leghista, cattolici militanti, anziani e giovani, il tutto in una quasi assenza di leader acclamati o riconosciuti come tali. Allo stesso tempo c’è una forte apertura verso l’esterno e la ricerca di collaborazione con associazioni o gruppi di ogni angolo d’Italia e non solo. 
Come ha sintetizzato molto bene Nicoletta Dosio in una intervista: «In questo movimento non c’è stata una fusione di parti diverse, ma un insieme di persone, anche diverse, che sono cresciute insieme, grazie alla lotta comune». Parole a cui sembra fare eco un passaggio di Gigi Richetto, quando afferma: «dobbiamo salvaguardare quella pluralità umana che è la paradossale pluralità di esseri unici». Un insieme di diversità che hanno imparato a convivere. Per certi versi potremmo dire che è nato un senso di comunità, che prima non esisteva o almeno non si manifestava in modo così esplicito e condiviso. Comunità nel senso più profondo del termine, quella in cui, come dice Zygmunt Bauman «nessuno dei suoi membri è estraneo».
Comunità è un termine “caldo”, che dà sicurezza. «Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra c'è qualcosa di tuo» scriveva Cesare Pavese ne La luna e i falò. Il senso della comunità, però, si è andato via via allentando, come dice Bauman [in Voglia di comunità], a causa del lavoro alienante, della sempre minore ridistribuzione e della conseguente maggiore diseguaglianza, dell’allontanamento delle élite dalle masse, con la progressiva svalutazione delle opinioni locali e della crescita dell’autorità degli esperti e quella dei numeri, dell’individualismo consumistico imperante. «...Data la totale perdita di fiducia in alternative politiche radicali, oggi la mentalità “distaccata” è incentrata principalmente sul consumo…».
Accade dunque che la maggior parte delle comunità contemporanee siano di tipo estetico, spesso deterritorializzate, fondate più sulle telecomunicazioni che sulla frequentazione, ma ci ammonisce ancora Bauman: «Una cosa che la comunità estetica evita accuratamente di fare è tessere tra i propri membri una rete di responsabilità, e quindi di impegni a lungo termine. Qualunque tipo di legami venga stabilito nel corso della brevissima vita della comunità estetica, essi non legano realmente: sono letteralmente “legami senza conseguenze”».
In val di Susa, invece, la gente ha scelto di assumersi le responsabilità che legano gli uni agli altri. «Questo è lo spirito che il TAV ha fatto nascere. Il fatto di vivere con un mostro così ha fatto nascere una coscienza, che prima non esisteva» mi ha detto un intervistato. Qualche anno fa un barbiere di Bussoleno è stato arrestato durante una manifestazione e pertanto ha dovuto chiudere il negozio. Gli altri barbieri dell’associazione Etinomia hanno deciso di lavorare a turno per tenere aperto il suo negozio e si sono impegnati a lavorare per il collega arrestato. Quando nel febbraio 2012 Luca Abbà è caduto dal traliccio e si è fatto male c’erano dei lavori da fare sui suoi terreni. Moltissima gente si è offerta di lavorare i suoi campi. Il 2 marzo del 2013 tre ragazzi alla Novalesa trovano un oggetto sconosciuto sopra i resti di un vecchio muretto lungo una strada abbandonata. Incautamente lo prendono in mano. Era una bomba a mano, residuato bellico della seconda guerra mondiale. L’esplosione ferisce gravemente i tre ragazzi, uno dei quali perde una mano, e un altro rimane gravemente ferito agli occhi. Tutta la valle è rimasta colpita dal tragico evento e subito è scattata la solidarietà nei confronti delle famiglie delle vittime. Si sono organizzati banchetti di tutti i tipi, per raccogliere denaro (…). Nulla di tutto questo è mai stato riportato dalla stampa.
Da questa complessa pluralità, che si tiene insieme grazie a una volontà comune di difendere il territorio in cui si vive, sono nate realtà e sensibilità diverse, che appaiono come tessere di un mosaico, le quali, pur differenti l’una dall’altra, vanno a comporre un disegno unitario e visibile. Ciò che i media non mostrano, infatti, sono i cambiamenti innescati da questa riflessione e da queste esperienze comuni. Come afferma un po’ cinicamente Jonas, sono spesso le minacce dirette a costringerci a riflettere, ma ciò che sta accadendo in val di Susa va al di là della semplice opposizione al tunnel ferroviario. (…) È interessante notare come la riflessione nata da un conflitto di carattere “ecologico” si sia estesa ad altre componenti della vita umana, in quanto si è ben presto giunti a comprendere che il traforo, come molte delle cosiddette “grandi opere” attuali, sia il prodotto di un’azione di una lobby di affari votata al mero profitto. Ciò che viene contestato dai No-tav non è solamente l’impatto ambientale locale, ma anche l’impatto dei trasporti in genere e delle economie di larga scala (…) cioè un modello di vita concepito sulla velocità come fattore centrale, per opporre l’idea di un’esistenza più slow, maggiormente in armonia con l’ambiente. Non solo opposizione, quindi, ma anche una proposta nuova.

Estratto da: Marco Aime, Etnografia del quotidiano. Uno sguardo antropologico sull’Italia che cambia, Elèuthera, Milano, 2014.




«Nunatak». Rivista di storie, culture, lotte della montagna

Con questo nome, originario della lingua dei popoli nativi del polo artico, sono denominate le formazioni rocciose che spuntano dalla coltre ghiacciata della Groenlandia e del circolo polare antartico. Si tratta in effetti delle vette di alcune, le uniche al giorno d’oggi ancora coperte dai ghiacci perenni, di quelle montagne su cui, all’epoca delle glaciazioni, si rifugiarono embrionali forme viventi che, con il ritiro dei ghiacci, ripopolarono di vita il pianeta. Dinnanzi al dilagare degli scempi sociali ed ecologici prodotti dalla società della Merce e dell’Autorità, le montagne della Terra tornano ad essere lo spazio della resistenza e della libertà. Affinché una vita meno alienata e meno contaminata possa, giorno dopo giorno, scendere sempre più a valle.

…Le nostre radici affondano nel terreno dei modus vivendi con cui le genti della montagna hanno costruito, in maniera generalizzabile almeno fino all’avvento dell’industrializzazione, un rapporto di interazione con l’ambiente circostante che ha garantito, anche a causa delle specifiche condizioni climatiche e delle conseguenti possibilità di insediamento umano, la salvaguardia di un equilibrio naturale, difficilmente riscontrabile oggi in altri contesti territoriali. Il patrimonio storico da cui attingiamo, e di cui rivendichiamo la continuità ai giorni nostri, è quello delle ribellioni che hanno marchiato queste terre nel corso dei secoli. Dalla resistenza delle tribù alpine contro l’espansione del nascente Impero romano alla lotta partigiana contro il nazi-fascismo: la storia, che si vuole dimenticata o mistificata, che passa per le rivolte contadine che si sono susseguite contro gabelle e tracotanze nobiliari, e per coloro che, bollati di eresia, hanno combattuto irriducibilmente a difesa dei propri credi e miti. Una traccia storica che testimonia la determinazione a non lasciarsi sopraffare dalle strutture di dominio “di turno” e la dignità di difendere e rivendicare forme proprie di governarsi – e non sono state poche le esperienze in tal senso nelle vallate alpine – e amministrare le risorse della terra in cui si vive. Una traccia che non si perde nel passato remoto ma arriva fino ai giorni nostri, negli episodi – più o meno circoscritti – e nelle mobilitazioni che, nell’arco dei decenni che ci separano dall’ultimo dopoguerra, hanno dimostrato e dimostrano che lottare, anche al di fuori dei poli di concentrazione urbana, è possibile, e che non esistono territori in cui sottrarsi all’impegno di contrastare i progetti di questa società ingiusta e velenosa. Esempio, sempre per “pertinenza” geografica, ne sono oggi il movimento contro l’Alta velocità ferroviaria e tutte le mobilitazioni, di massa e non, contro infrastrutture che aggrediscono i territori, le consuetudini di vita sul posto, la salute delle popolazioni…
La sempre più invasiva subordinazione delle zone montane ai modelli sociali e amministrativi, produttivi e di consumo, di controllo e militarizzazione imposti dalle politiche del centralismo metropolitano nei confronti della “periferia”, ci inducono ad affermare che la sola via d’uscita sia quella di dedicarsi a scrollarsi di dosso quanto prima possibile il pesante fardello di burocrazia e sudditanza politica che infastidisce le nostre vite fin nel più alto degli alpeggi. Questo significa rifiutare la rappresentatività istituzionale, e riconoscere come presenza ostile a tale percorso, come minaccia alle libertà personali e collettive, le legioni in divisa che vegliano sul mantenimento della sua imposizione. Significa intraprendere esperienze, per quanto anche “embrionali” e territorialmente ridotte possano essere, che segnino un nuovo corso di gestione della comunità, in cui le persone che abitano la montagna – e non le autorità o chi si pretende portavoce delle istanze della popolazione nei Palazzi del Potere – si riapproprino della facoltà di decidere per sé. Vediamo con i nostri occhi che la politica degli Stati, i partiti che mercanteggiano cariche e finanziamenti, leggi e sanzioni che attanagliano ogni aspetto delle nostre esistenze portano ben poco di buono alla montagna e alle sue genti. Questa è la realtà con cui bisogna fare i conti, nonostante quanti sforzi, anche in sincera buona fede, facciano molti amministratori locali per mettere qualche pezza ai disastri di un sistema da cui, marcio com’è fin dalle radici, è un compito disperato raccogliere frutti buoni.
In quest’ottica è evidente che le nostre prospettive di cambio politico non possono che essere accompagnate dalla messa in discussione dei modelli culturali, economici e produttivi che stanno alla base del sistema sociale a cui desideriamo opporci. In tal senso, la consistenza e la coerenza del percorso che proponiamo si evidenziano in un approccio critico nei confronti del falso benessere di una “società del consumo” a cui si accompagnano inevitabilmente malattie e degrado ambientale. È necessario mettere in discussione uno sviluppo tecnologico/industriale che mira a fini ben diversi dall’eguaglianza sociale ed economica e da una reale prosperità per la comunità umana: bisogna smascherare e contrastare progetti e applicazioni tecnologiche che condizionano le nostre vite a favore di grandi concentrazioni economiche che rapinano le risorse di cui sono tutrici le comunità locali, privando così queste ultime della possibilità di coltivare equilibri naturali con l’ambiente che le circonda. Infine, queste prospettive di cambio culturale non possono non tenere conto delle ineguaglianze che emergono anche all’interno delle consuetudini comunitarie a cui affidiamo il compito di traghettarci fuori dalla catastrofe che ci circonda: discriminazioni di genere, modelli famigliari gerarchici, pregiudizi religiosi, di costume, di sfiducia nel prossimo (specie se viene “da fuori”) sono i rami secchi di cui dobbiamo saper fare a meno se si aspira a una comunità felice, coesa e libera.
Il nostro impegno deve essere quindi indirizzato a costruire l’extra-istituzionalità, come pratica concreta di quella che, a nostro avviso, è l’unica ipotesi percorribile ai fini di una trasformazione reale delle condizioni di vita nelle zone montane, ovvero l’autodeterminazione da parte delle comunità locali dei criteri di convivenza e di gestione delle risorse territoriali…

Estratto da «Nunatak» Rivista di storie, culture, lotte della montagna (articolo Tracce in vista a cura del NucleoSenzaTerra), n. 23, estate 2011.




Stefano Boni

Il grado di invadenza del governo occidentale contemporaneo nei campi che elenco di seguito probabilmente non trova uguali, per quantità di ambiti e meticolosità della prescrizione, in circuiti culturali di altri luoghi e tempi. Mai nella storia dell’umanità sono stati regolamentati in maniera così vincolante i seguenti campi. È stato codificato come e dove i cadaveri possono essere seppelliti. Non si può esercitare qualsiasi commercio senza autorizzazione. Sono stati vietati certi giochi di carte, pur senza utilizzo di soldi. Sono stati vietati innumerevoli alimenti di produzione casalinga o artigianale, tra cui la bistecca con l’osso e il salame tagliato a mano, attraverso normative che rendono illegali certe composizioni e modalità di produzione del bene; ad esempio, sono stati regolamentati in maniera restrittiva i fermenti lattici utilizzabili per fare il formaggio. È stata vietata la macellazione, se non presso ditte autorizzate. È reato urinare in qualunque luogo che non siano bagni predisposti. In diverse città le norme urbanistiche sono ferree ed arrivano a specificare una ristretta gamma entro cui scegliere il colore delle persiane. C’è l’obbligo per ogni cittadino di frequentare la scuola; non si tratta qui di discutere sulla bontà del processo di alfabetizzazione ma del fatto che questo venga obbligatoriamente imposto nella forma scolastica statale. Vaccinare i figli è indispensabile, anche per malattie oggi praticamente inesistenti. Ogni spazio sia pubblico che privato, sia finalizzato alla produzione che all’abitazione, sia agricolo che commerciale, è stato sottoposto a una sterminata, capillare, ossessionante serie di vincoli e certificazioni che riguardano l’areazione dei locali, l’altezza dei soffitti, i materiali con cui devono essere fatti gli impianti elettrici e le modalità di apertura delle porte. È proibita la coltivazione e il consumo di marijuana e di tutte le droghe non legalizzate. Per molti cittadini del mondo non è più possibile spostarsi liberamente. Non si possono più raccogliere castagne o legna secca per riscaldarsi perché a tutto è stata assegnata una proprietà. Per raccogliere i funghi è richiesta una autorizzazione. Non si possono cantare canzoni in pubblico perché protette dai diritti d’autore. Non si possono fare fotocopie di libri. In diversi luoghi non si può dormire all’aperto e non si possono fare fuochi, anche se in condizioni di assoluta sicurezza. Non ci si può riposare orizzontalmente su panchine. Non si può distillare la grappa o piantare una vigna senza prima pagare e ottenere una autorizzazione (…). 
Questo elenco è, ovviamente, incompleto. Potrebbe proseguire per pagine. Considerato che viviamo nell’auto-proclamata società della libertà, la lista di ciò che non si può fare, almeno legalmente, è davvero lunga. La maggior parte sono attività che l’umanità, nei secoli, ha sempre svolto senza pensare che potessero essere rese illegali. (…) Questo insieme di divieti rende, di fatto, criminosi certi stili di vita, che pur non danneggiano nessuno, se non gli interessi della burocrazia e del mercato. Si tratta di prevaricazioni che, evocando la tutela dei cittadini, permettono allo Stato di ergersi a censore di prassi difformi da quelle prevalenti: «l’amministrazione, come lo Stato moderno (a cui la sua crescita può essere associata) ora viola tutti gli ambiti della vita, in modo da rendere virtualmente impossibile ignorare o sottrarsi alla sua influenza» (Shore e Wright, 1997) Le sanzioni colpiscono la diversità proprio negli ambiti (il lavoro, la distribuzione proprietaria, la capacità di esercitare un peso politico, la gestione del territorio) che abbiamo delineato come essenziali nel processo di standardizzazione.

Gli ultimi secoli, e in particolare gli ultimi decenni, sono stati caratterizzati da una crescita esponenziale del potenziale tecnico a disposizione dell'umanità, che l'ha liberata dalla fatica e le ha consentito una vita comoda che rispondeva a un anelito atavico. Questa progressiva trasformazione oggi ha raggiunto la sua piena maturazione, forgiando una umanità inedita: l'homo comfort. Ogni aspetto del vissuto, dal parto alla morte, è stato manipolato a fondo da questa escalation ipertecnologica, permettendo alla specie umana di neutralizzare taluni fenomeni naturali e la stessa esperienza del dolore. Ma che conseguenze ha tutto questo sulle nostre facoltà percettive? Quali saperi, incorporati per secoli, sono andati perduti? Ecco alcune domande cruciali, alle quali conviene rispondere in fretta ora che i nostri confortevoli rifugi sono minacciati da dinamiche, talvolta definite crisi, che forse preannunciano un collasso epocale.

La speranza è riposta nella costruzione di una società meno autoritaria, più egalitaria, più partecipata. Il sistema politico «ufficiale» si è dimostrato incapace di portare avanti queste istanze; la spinta, conseguentemente, non può più essere delegata ma deve venire dalla faticosa costruzione quotidiana. (…) C’è un substrato culturale che non solo alimenta i vari attivismi politici, e riempie le piazze, ma che vive quotidianamente la propria proposta. La politica non è più solo discorso, ma è costruzione di quotidianità. È proprio nel vissuto, piuttosto che nei giornali, nel voto e nei comizi, che si creano le premesse, le fondamenta di una politica dell’alternativa radicale. (…) La prassi non prevede dottrine o finalità precise. Nel fare si interviene sulla società, generando così un cambiamento che non è frutto di previsioni o modelli: i vissuti lasciano tracce, queste proiettano nel futuro dei valori che prenderanno, con lo scorrere del tempo, forme imprevedibili. 
È nel vissuto che si delinea un’alternativa che si fa azione. È nei rapporti personali orizzontali tra le soggettività che si intuisce la strada per il superamento del verticismo partitico. È nella solidarietà quotidiana che si trovano i germi di una modalità egualitaria e partecipativa di minare lo sterile dominio del mercato.

Estratti da: Stefano Boni, Culture e poteri. Un approccio antropologico, Elèuthera, Milano, 2011; Homo comfort. Il superamento tecnologico della fatica e le sue conseguenze, Elèuthera, 2014; Vivere senza padroni. Antropologia della sovversione quotidiana, Elèuthera, 2006.




Marco Revelli

La verità è che sul "caso della TAV" convergono, e s’intrecciano, come in un vero e proprio caso di scuola, un po' tutti i sintomi e i topoi che caratterizzano l'attuale "male oscuro" delle nostre democrazie. Le cause della loro difficilmente curabile anemia.
La surdeterminazione sistemica, in primo luogo, che tende a cancellare (o ad offuscare) l’autonomia decisionale dei singoli sistemi-Paese in nome dell'interconnessione tra di essi che viene a funzionare da metafisica influente – anzi da meta politica dominante –, la quale si sostituisce alle sedi decisionali tradizionali (i Parlamenti nazionali) e deresponsabilizza le classi politiche nazionali vanificando (o neutralizzando) lo stesso principio di rappresentanza. L’assenza di “ragioni” nell'argomentazione dei politici, e l’assenza di discussione nelle sedi istituzionali della deliberazione politica (i “luoghi deputati” della cittadinanza, il Parlamento, le Assemblee elettive) corrisponde al simmetrico svuotamento di queste sedi del loro potere decisionale, assorbito e sussunto nelle reti d’interconnessione macro-regionale o globale, impersonali, soggette a criteri tecnocratici, imperscrutabili nelle loro logiche e nello stesso tempo, indiscutibili nelle loro decisioni. Le dinamiche di flusso tendono a sovrapporsi alle precedenti responsabilità di luogo, in cui si radicava la legittimazione politica e il principio di rappresentanza, piegandole alla propria logica (quando è possibile) o tentando di azzerarle con la forza del proprio “monopolio della decisione” quando queste resistono (come nel caso della Val Susa).
E poi la seconda «patologia della democrazia» indicata da Marcel Gauchet: la “mediatizzazione” dello spazio pubblico. La trasformazione dell’arena democratica – di quell'ambito in cui si dovrebbe formare, attraverso il libero confronto delle argomentazioni, l'opinione pubblica – in un contesto pienamente e totalmente mediatico, dominato dalle grandi centrali dell'informazione, sempre più spesso identificate con reti affaristiche onnipotenti. Qui non ci sono argomentazioni contrapposte. Non c'è neppure “informazione”. Se si consulta la strabordante rassegna stampa sul fenomeno No-Tav così come appare dai principali quotidiani "indipendenti" italiani (da la Repubblica al Corriere della sera) non si può non essere colpiti dalla sua assoluta analogia con ciò che si è registrato nella sfera politica: assenza di dati, di cifre, di ragionamento. Manipolazione delle notizie e riproposizione propagandistica di luoghi comuni arbitrari, privi di riscontri controllabili. In taluni casi anche un di più di acrimonia, giustificata solo da una logica "di servizio" (si vedano le cronache sul quotidiano La Stampa, il cui azionista di riferimento, la Fiat, è direttamente interessato al business connesso all’opera).
Infine quello che si era indicato come un processo di iper-individualizzazione e di liquidazione dei princìpi di organizzazione collettiva consolidati. Nell'ideologia prevalente nelle posizioni favorevoli al Tav è facile cogliere un'istintiva, irreprimibile ostilità verso la dimensione collettiva dei valori e degli stessi interessi. Una vocazione ostile a tutto ciò che appare coinvolto con una qualche idea di "comunità" e di "bene comune". L’interesse "generale", certo, è invocato come argomento dirimente per contrapposizione al "locale", ma a condizione che resti nella dimensione più astratta possibile. Come evocazione disincarnata, generica e priva di identificazione e di identificabilità. Un'istanza impersonale e irresponsabile, come d'altra parte tutto ciò che è "flusso", dai mercati al circuito finanziario ... Quando invece s'incarna in un corpo sociale, in uomini e donne in carne ed ossa, in uno spazio concreto, abitato da una "comunità" – quando si condensa in un "luogo" – allora diventa entità ostile. Grumo da dissolvere. Parzialità da riassorbire. Il collettivo determinato ad assumere il controllo sulle proprie condizioni di esistenza non è contemplato in questo codice. L’istanza dell'autogoverno dei luoghi non sta in questo concetto debole di democrazia. Non è compatibile con la "bassa intensità" dei suoi circuiti. Va scomposto nelle individualità solitarie che lo costituiscono, impotenti a controllare i flussi che le trascinano, a contrastare gli interessi che le trascendono.
La "distanza dalla vita" che contrassegna il politico contemporaneo, qui – sui contrafforti della valle che stanno a monte della petrosa Sacra di San Michele e oltre il Musinè – è percepibile fisicamente. La si sente sulla pelle, dalla disseccazione del linguaggio, nelle parole che perdono senso, nell'estraneità abissale tra il "mondo della politica" che parla in televisione e sui giornali e la realtà che si consuma qua, a Chiomonte, alla Maddalena, tra le vigne che vanno in rovina, negli sbarramenti che segmentano il territorio, nella comunità che misura l'insensatezza del progetto…

Estratto da: Marco Revelli e Livio Pepino, Non solo un treno… La democrazia alla prova della Valsusa, Gruppo Abele, Torino, 2012

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