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lunedì 29 settembre 2014

PASOLINI di Abel Ferrara - Siamo tutti in pericolo




Film complesso, discontinuo ma affascinante, un tributo di Ferrara a colui che considera un suo maestro. 

Da vedere anche perché ripropone le riflessioni di Pier Palo Pasolini nei suoi ultimi giorni di vita, riflessioni quanto mai attuali, a distanza di 40 anni.


A questo proposito pubblichiamo il testo dell'intervista che il regista rilasciò a Furio Colombo e che fu pubblicato sull'inserto "Tuttolibri" del quotidiano "La Stampa" l'8 novembre 1975.




Siamo tutti in pericolo / intervista di Furio Colombo a Pier Paolo Pasolini
Questa intervista ha avuto luogo sabato 1° novembre, fra le 4 e le 6 del pomeriggio, poche ore prima che Pasolini venisse assassinato. Voglio precisare che il titolo dell’incontro che appare in questa pagina è suo, non mio. Infatti alla fine della conversazione che spesso, come in passato, ci ha trovati con persuasioni e punti di vista diversi, gli ho chiesto se voleva dare un titolo alla sua intervista. Ci ha pensato un po’, ha detto che non aveva importanza, ha cambiato discorso, poi qualcosa ci ha riportati sull’argomento di fondo che appare continuamente nelle risposte che seguono. "Ecco il seme, il senso di tutto - ha detto - Tu non sai neanche chi adesso sta pensando di ucciderti. Metti questo titolo, se vuoi: "Perché siamo tutti in pericolo"".
Pasolini, tu hai dato nei tuoi articoli e nei tuoi scritti, molte versioni di ciò che detesti. Hai aperto una lotta, da solo, contro tante cose, istituzioni, persuasioni, persone, poteri. Per rendere meno complicato il discorso io dirò "la situazione", e tu sai che intendo parlare della scena contro cui, in generale ti batti. Ora ti faccio questa obiezione. La "situazione" con tutti i mali che tu dici, contiene tutto ciò che ti consente di essere Pasolini. Voglio dire: tuo è il merito e il talento. Ma gli strumenti? Gli strumenti sono della "situazione". Editoria, cinema, organizzazione, persino gli oggetti. Mettiamo che il tuo sia un pensiero magico. Fai un gesto e tutto scompare. Tutto ciò che detesti. E tu? Tu non resteresti solo e senza mezzi? Intendo mezzi espressivi, intendo...
Sì, ho capito. Ma io non solo lo tento, quel pensiero magico, ma ci credo. Non in senso medianico. Ma perché so che battendo sempre sullo stesso chiodo può persino crollare una casa. In piccolo un buon esempio ce lo danno i radicali, quattro gatti che arrivano a smuovere la coscienza di un Paese (e tu sai che non sono sempre d’accordo con loro, ma proprio adesso sto per partire, per andare al loro congresso). In grande l’esempio ce lo dà la storia. Il rifiuto è sempre stato un gesto essenziale. I santi, gli eremiti, ma anche gli intellettuali. I pochi che hanno fatto la storia sono quelli che hanno detto di no, mica i cortigiani e gli assistenti dei cardinali. Il rifiuto per funzionare deve essere grande, non piccolo, totale, non su questo o quel punto, "assurdo" non di buon senso. Eichmann, caro mio, aveva una quantità di buon senso. Che cosa gli è mancato? Gli è mancato di dire no su, in cima, al principio, quando quel che faceva era solo ordinaria amministrazione, burocrazia. Magari avrà anche detto agli amici, a me quell’Himmler non mi piace mica tanto. Avrà mormorato, come si mormora nelle case editrici, nei giornali, nel sottogoverno e alla televisione. Oppure si sarà anche ribellato perché questo o quel treno si fermava, una volta al giorno per i bisogni e il pane e acqua dei deportati quando sarebbero state più funzionali o più economiche due fermate. Ma non ha mai inceppato la macchina. Allora i discorsi sono tre. Qual è, come tu dici, "la situazione", e perché si dovrebbe fermarla o distruggerla. E in che modo. (...)
Che cos’è il potere, secondo te, dove è, dove sta, come lo stani?
Il potere è un sistema di educazione che ci divide in soggiogati e soggiogatori. Ma attento. Uno stesso sistema educativo che ci forma tutti, dalle cosiddette classi dirigenti, giù fino ai poveri. Ecco perché tutti vogliono le stesse cose e si comportano nello stesso modo. Se ho tra le mani un consiglio di amministrazione o una manovra di Borsa uso quella. Altrimenti una spranga. E quando uso una spranga faccio la mia violenza per ottenere ciò che voglio. Perché lo voglio? Perché mi hanno detto che è una virtù volerlo. Io esercito il mio diritto-virtù. Sono assassino e sono buono.
Ti hanno accusato di non distinguere politicamente e ideologicamente, di avere perso il segno della differenza profonda che deve pur esserci fra fascisti e non fascisti, per esempio fra i giovani.
Per questo ti parlavo dell’orario ferroviario dell’anno prima. Hai mai visto quelle marionette che fanno tanto riderei bambini perché hanno il corpo voltato da una parte e la testa dalla parte opposta? Mi pare che Totò riuscisse in un trucco del genere. Ecco io vedo così la bella truppa di intellettuali, sociologi, esperti e giornalisti delle intenzioni più nobili, le cose succedono qui e la testa guarda di là. Non dico che non c’è il fascismo. Dico: smettete di parlarmi del mare mentre siamo in montagna. Questo è un paesaggio diverso. Qui c’è la voglia di uccidere. E questa voglia ci lega come fratelli sinistri di un fallimento sinistro di un intero sistema sociale. Piacerebbe anche a me se tutto si risolvesse nell’isolare la pecora nera. Le vedo anch’io le pecore nere. Ne vedo tante. Le vedo tutte. Ecco il guaio, ho già detto a Moravia: con la vita che faccio io pago un prezzo... È come uno che scende all’inferno. Ma quando torno - se torno - ho visto altre cose, più cose. Non dico che dovete credermi. Dico che dovete sempre cambiare discorso per non affrontare la verità.
E qual è la verità?
Mi dispiace avere usato questa parola. Volevo dire "evidenza". Fammi rimettere le cose in ordine. Prima tragedia: una educazione comune, obbligatoria e sbagliata che ci spinge tutti dentro l’arena dell’avere tutto a tutti i costi. In questa arena siamo spinti come una strana e cupa armata in cui qualcuno ha i cannoni e qualcuno ha le spranghe. Allora una prima divisione, classica, è "stare con i deboli". Ma io dico che, in un certo senso tutti sono i deboli, perché tutti sono vittime. E tutti sono i colpevoli, perché tutti sono pronti al gioco del massacro. Pur di avere. L’educazione ricevuta è stata: avere, possedere, distruggere.
Allora fammi tornare alla domanda iniziale. Tu, magicamente abolisci tutto. Ma tu vivi di libri, e hai bisogno di intelligenze che leggono. Dunque, consumatori educati del prodotto intellettuale. Tu fai del cinema e hai bisogno non solo di grandi platee disponibili (infatti hai in genere molto successo popolare, cioè sei "consumato" avidamente dal tuo pubblico) ma anche di una grande macchina tecnica, organizzativa, industriale, che sta in mezzo. Se togli tutto questo, con una specie di magico monachesimo di tipo paleo-cattolico e neo- cinese, che cosa ti resta?
A me resta tutto, cioè me stesso, essere vivo, essere al mondo, vedere, lavorare, capire. Ci sono cento modi di raccontare le storie, di ascoltare le lingue, di riprodurre i dialetti, di fare il teatro dei burattini. Agli altri resta molto di più. Possono tenermi testa, colti come me o ignoranti come me. Il mondo diventa grande, tutto diventa nostro e non dobbiamo usare né la Borsa, né il consiglio di amministrazione, né la spranga, per depredarci. Vedi, nel mondo che molti di noi sognavano (ripeto: leggere l’orario ferroviario dell’anno prima, ma in questo caso diciamo pure di tanti anni prima) c’era il padrone turpe con il cilindro e i dollari che gli colavano dalle tasche e la vedova emaciata che chiedeva giustizia con i suoi pargoli. Il bel mondo di Brecht, insomma.
Come dire che hai nostalgia di quel mondo.
No! Ho nostalgia della gente povera e vera che si batteva per abbattere quel padrone senza diventare quel padrone. Poiché erano esclusi da tutto nessuno li aveva colonizzati. Io ho paura di questi negri in rivolta, uguali al padrone, altrettanti predoni, che vogliono tutto a qualunque costo. Questa cupa ostinazione alla violenza totale non lascia più vedere "di che segno sei". Chiunque sia portato in fin di vita all’ospedale ha più interesse - se ha ancora un soffio di vita - in quel che gli diranno i dottori sulla sua possibilità di vivere che in quel che gli diranno i poliziotti sulla meccanica del delitto. Bada bene che io non facio né un processo alle intenzioni né mi interessa ormai la catena causa effetto, prima loro, prima lui, o chi è il capo-colpevole. Mi sembra che abbiamo definito quella che tu chiami la "situazione". È come quando in una città piove e si sono ingorgati i tombini. l’acqua sale, è un’acqua innocente, acqua piovana, non ha né la furia del mare né la cattiveria delle correnti di un fiume. Però, per una ragione qualsiasi non scende ma sale. È la stessa acqua piovana di tante poesiole infantili e delle musichette del "cantando sotto la pioggia". Ma sale e ti annega. Se siamo a questo punto io dico: non perdiamo tutto il tempo a mettere una etichetta qui e una là. Vediamo dove si sgorga questa maledetta vasca, prima che restiamo tutti annegati.
E tu, per questo, vorresti tutti pastorelli senza scuola dell’obbligo, ignoranti e felici.
Detta così sarebbe una stupidaggine. Ma la cosiddetta scuola dell’obbligo fabbrica per forza gladiatori disperati. La massa si fa più grande, come la disperazione, come la rabbia. Mettiamo che io abbia lanciato una boutade (eppure non credo) Ditemi voi una altra cosa. S’intende che rimpiango la rivoluzione pura e diretta della gente oppressa che ha il solo scopo di fari libera e padrona di se stessa. S’intende che mi immagino che possa ancora venire un momento così nella storia italiana e in quella del mondo. Il meglio di quello che penso potrà anche ispirarmi una delle mie prossime poesie. Ma non quello che so e quello che vedo. Voglio dire fuori dai denti: io scendo all’inferno e so cose che non disturbano la pace di altri. Ma state attenti. L’inferno sta salendo da voi. È vero che sogna la sua uniforme e la sua giustificazione (qualche volta). Ma è anche vero che la sua voglia, il suo bisogno di dare la sprangata, di aggredire, di uccidere, è forte ed è generale. Non resterà per tanto tempo l’esperienza privata e rischiosa di chi ha, come dire, toccato "la vita violenta". Non vi illudete. E voi siete, con la scuola, la televisione, la pacatezza dei vostri giornali, voi siete i grandi conservatori di questo ordine orrendo basato sull’idea di possedere e sull’idea di distruggere. Beati voi che siete tutti contenti quando potete mettere su un delitto la sua bella etichetta. A me questa sembra un’altra, delle tante operazioni della cultura di massa. Non potendo impedire che accadano certe cose, si trova pace fabbricando scaffali.
Ma abolire deve per forza dire creare, se non sei un distruttore anche tu. I libri per esempio, che fine fanno? Non voglio fare la parte di chi si angoscia più per la cultura che per la gente. Ma questa gente salvata, nella tua visione di un mondo diverso, non può essere più primitiva (questa è un’accusa frequente che ti viene rivolta) e se non vogliamo usare la repressione "più avanzata"...
Che mi fa rabbrividire.
Se non vogliamo usare frasi fatte, una indicazione ci deve pur essere. Per esempio, nella fantascienza, come nel nazismo, si bruciano sempre i libri come gesto iniziale di sterminio. Chiuse le scuole, chiusa la televisione, come animi il tuo presepio?
Credo di essermi già spiegato con Moravia. Chiudere, nel mio linguaggio, vuol dire cambiare. Cambiare però in modo tanto drastico e disperato quanto drastica e disperata è la situazione. Quello che impedisce un vero dibattito con Moravia ma soprattutto con Firpo, per esempio, è che sembriamo persone che non vedono la stessa scena, che non conoscono la stessa gente, che non ascoltavano le stesse voci. Per voi una cosa accade quando è cronaca, bella, fatta, impaginata, tagliata e intitolata. Ma cosa c’è sotto? Qui manca il chirurgo che ha il coraggio di esaminare il tessuto e di dire: signori, questo è cancro, non è un fatterello benigno. Cos’è il cancro? È una cosa che cambia tutte le cellule, che le fa crescere tutte in modo pazzesco, fuori da qualsiasi logica precedente. È un nostalgico il malato che sogna la salute che aveva prima, anche se prima era uno stupido e un disgraziato? Prima del cancro, dico. Ecco prima di tutto bisognerà fare non solo quale sforzo per avere la stessa immagine. Io ascolto i politici con le loro formulette, tutti i politici e divento pazzo. Non sanno di che Paese stanno parlando, sono lontani come la Luna. E i letterati. E i sociologi. E gli esperti di tutti i generi.
Perché pensi che per te certe cose siano talmente più chiare?
Non vorrei parlare più di me,forse ho detto fin troppo. Lo sanno tutti che io le mie esperienze le pago di persona. Ma ci sono anche i miei libri e i miei film. Forse sono io che sbaglio. Ma io continuo a dire che siamo tutti in pericolo.
Pasolini, se tu vedi la vita così - non so se accetti questa domanda - come pensi di evitare il pericolo e il rischio?
È diventato tardi, Pasolini non ha acceso la luce e diventa difficile prendere appunti. Rivediamo insieme i miei. Poi lui mi chiede di lasciargli le domande. "Ci sono punti che mi sembrano un po’ troppo assoluti. Fammi pensare, fammeli rivedere. E poi dammi il tempo di trovare una conclusione. Ho una cosa in mente per rispondere alla tua domanda. Per me è più facile scrivere che parlare. Ti lascio le note che aggiungo per domani mattina". Il giorno dopo, domenica, il corpo senza vita di Pier Paolo Pasolini era all’obitorio della polizia di Roma.



domenica 28 settembre 2014

RITA PELUSIO - EVA DIARIO DI UNA COSTOLA

IL GIORNO CHE EVA MANGIO' LA MELA 
NON NACQUE IL PECCATO
MA LA 
DISOBBEDIENZA!


Sabato sera al Salone Don Bunino di Bussoleno, Rita Pelusio ha offerto al popolo no tav, e a tutti quelli che si sono presentati (perché non siamo razzisti....) un esilarante spettacolo che parte da una scelta però molto seria, forse la scelta più grande dell'umanità: accettare le regole o disubbidire?

Una trasgressione all'insegna della scoperta, di cui la mela è simbolo: morderla o non morderla? 

In un misto di consapevolezza e disincanto, Eva si chiede cosa succederà dopo, proiettandosi nella contemporaneità delle donne di oggi. Dall'adolescente in piena crisi ormonale alla suora in crisi mistica, dalla madre di figlio maschio alla prostituta rumena, dalla manager multitasking all'anziana innamorata: umane nella loro imperfezione raccontano il coraggio di chi ogni giorno combatte per la propria felicità.

La regia è di Marco Rampoldi e i testi di Alessandra Faiella, Marianna Stefanucci, Riccardo Piferi.


Lo spettacolo era ad offerta libera e tutto il denaro raccolto andrà per le spese legali del movimento NoTav.


Ancora un grazie a tutti e in particolare a Rita, brillante e travolgente, per la serata di risate e di freschezza che ci hanno regalato, e sappiamo quanto ne abbiamo bisogno...


Stiamo accettando tutto quello che ci impongono (e non solo in relazione a treni e grandi opere!), facendoci pensare che non ci sia altra soluzione. Invece è solo dando quel morso che possiamo sperare di cambiare.






Per maggiori informazioni su questa bravissima attrice comica consultate direttamente il suo sito:  http://www.ritapelusio.com/








mercoledì 24 settembre 2014

CIAO, BELLA CIAO - Ricordo dell'Avv. Bianca Guidetti Serra

 « Quelli che si esercitano a esaminare le azioni umane non si trovano mai così impacciati come nel metterle insieme e presentarle sotto la stessa luce: poiché in genere si contraddicono in modo così strano che sembra impossibile che siano uscite dalla stessa bottega. »
 Così afferma Michel de Montaigne nei suoi « Saggi ». Questa volta però l’ «impaccio» mi è estraneo perché Bianca Guidetti Serra ha disposto la sua vita secondo un ritmo certo e sicuro, privo di sbavature. Il suo pensiero va letto in trasparenza, come una filigrana sottile costantemente presente nel suo agire.
Già, perché di prassi si trattò e non tanto – o non solo – perché le piacque il “fare”, come ha scritto ed affermato tante volte, quanto piuttosto perché in questa egemonia della prassi come valore in sé -unica in grado di contrastare i lati oscuri del tempo - sembra riassumersi il senso più profondo della vita di Bianca Guidetti Serra.
Cosa lascia alle donne del terzo millennio?
Non solo le molte battaglie legislative – la legge sull’adozione, quella per la messa al bando dell’amianto – ma anche quelle giudiziarie volte a tutelare le donne lavoratrici dalle discriminazioni legate al sesso: prima fra tutte la clausola del “nubilato” che il datore di lavoro faceva sottoscrivere alle dipendenti al momento dell'assunzione, per riservarsi la possibilità di licenziarle qualora si sposassero; fu lei nel 1958 a mettere in piedi il primo processo per la parità salariale contro il potente Gruppo Finanziario Tessile dove le donne guadagnavano, a parità di lavoro, sette lire al giorno, gli uomini dieci. Vinse quella causa e il mondo del lavoro non fu più lo stesso. Pochi anni dopo venne ammessa, per la prima volta, la costituzione di parte civile del sindacato nel processo per le schedature Fiat
; fu la prima – lei che all’inizio della sua carriera di avvocato era una delle tre penaliste italiane quando gli iscritti erano circa un migliaio – a fare processi – e a vincerli – contro la monetizzazione della salute.
Non solo questo, dicevo.
Esistono anche le Madri della Patria, Bianca Guidetti fu una di queste e, anche se non le piacque la “politica dei palazzi”, anche se, come lei stessa ebbe a dire: “In Parlamento non si dovrebbe mai stare più di due legislature. Venire dal mondo del lavoro e tornarci subito dopo, per rimanere in contatto con la realtà del Paese”, sarebbe stato bello e importante vederla sedere tra i Senatori a vita perché la sua eredità più elevata sta nel contributo che ha fornito alla maturazione civile della Repubblica: la tutela legale delle donne ha rappresentato la prassi della teorizzazione – e dell’esortazione - di Piero Calamandrei laddove afferma, nel noto “Discorso sulla Costituzione” tenuto nel 1955, “La nostra Costituzione è in parte una realtà, ma soltanto in parte è una realtà. In parte è ancora un programma, un ideale, una speranza, un impegno di lavoro da compiere.”
Bianca Guidetti non si tirò indietro.
L’ideale di uguaglianza – unico ambiente in cui può pienamente affermarsi la giustizia – fu un filo rosso che attraversò la sua vita, faro che accese già al tempo della Resistenza, da fondatrice e animatrice dei clandestini "Gruppi di difesa della donna e per l’assistenza ai combattenti per la libertà". È del 1977 la pubblicazione del suo capolavoro “Compagne”
, il primo libro significativo sulla “Resistenza taciuta” – come è stata definita da molti storici. Per la prima volta viene data voce a quante non avrebbero ricoperto cariche politiche di rilievo, men che meno avrebbero tratto vantaggi economici dal loro impegno, a quante sarebbero tornate – spesso dopo l’esilio dai propri cari, il carcere, le torture, il confino – alle loro modeste, seppur decorose, vite. Bianca Guidetti ha trattenuto la memoria di quelle esistenze, strappandole all’oblio della storia grande.
Nelle vite raccolte in quel libro troviamo non solo l’esperienza di un ambiente nei suoi aspetti politici, ma anche in quelli di costume che ci restituiscono una testimonianza sociale ed elevano a dignità storica la narrazione orale. Così il tessuto, l’ordito della società si costruisce attraverso i racconti di Teresa, Clementina, Elvira e di tante altre per farsi storia di un intero movimento, racconti non di gesta eclatanti, ma di lavoro duro nelle filande, nei campi e poi di scioperi, di sabotaggi, di scambi di informazioni; il significato della loro testimonianza sta proprio in questo: “l’affermazione e la dimostrazione del valore e della portata della partecipazione dal basso, che si caratterizza e si qualifica per la fedeltà al proprio patrimonio ideale e al contempo per l’attenzione ai problemi immediati e concreti, per il rispetto delle grandi ma anche delle piccole cose.”

La potenza di quello sforzo letterario riguarda la forza e la radicalità grazie alle quali certi discorsi, certe idee danno forma all’esistenza particolare di ciascuno. Questa rivoluzione concettuale lungi dal rimanere confinata nella dimensione della pura teoria, mira piuttosto ad indicarci l’urgenza di un compito pratico.
Per le Compagne di Bianca Guidetti – come per lei medesima – la politica, la Resistenza, non era una scelta e nemmeno una possibilità, era assolutamente necessaria alla socializzazione; se Bianca Guidetti non avesse fatto politica, se non avesse incontrato la politica, la sua vita si sarebbe inserita in un destino medio borghese, in un percorso professionale abbastanza predestinato. Fare politica ha significato – per lei e per le Compagne – prendere in mano il proprio destino.
Furono le leggi razziali del 1938 a metterla, casualmente, come scrisse, di fronte agli orridi ostacoli del fascismo e dell’ingiustizia, ma non casualmente scelse di mettersi al centro della traiettoria di quegli ostacoli, di farne non solo la bandiera dell’esistenza, ma anche la sua cifra politica.
Hannah Arendt ha detto che l’essere umano è un animale politico, che c’è “politica” laddove si costruisce un interesse, uno stare insieme nella vita pubblica e si realizzano delle relazioni significative tra persone. Bianca Guidetti, entrata giovanissima in fabbrica dove scopre i problemi sociali, compie un ulteriore passo: non ha mai smesso di osservare la base antropologica della politica, registrandone i cambiamenti, nonché la base antropologica del nostro modo di pensare il soggetto politico.
È un lavoro che un po’ ha fatto il femminismo – molti anni dopo – ed era necessario, perché se non avesse fatto quel lavoro sulla soggettività non avremmo capito niente della politica delle donne e avremmo continuato a pensare a quello che pensava l’emancipazionismo, ovvero che fare politica significa ottenere più diritti. Sarebbe riduttivo opporre come Bianca Guidetti non fosse “antagonista per principio”
, perché, in realtà, non le interessavano gli obiettivi della politica quanto il come della politica.
Ora possiamo pensare a Bianca Guidetti come a un’icona – appellativo che non le piacerebbe – di un mondo perduto: quell’ormai così lontano secondo Novecento delle grandi battaglie civili vittoriose, lotte non dubitabili, né troppo condizionate da opzioni ideologiche e piuttosto ispirate da un umano e vitale senso di giustizia, da quel dovere del rispetto dell’Altro che le carneficine del fascismo e della guerra avevano reso un valore evidente.
“Compagne” fu scritto per rispondere all’esigenza “di riannodare il femminismo delle giovani generazioni, esploso dopo il Sessantotto, a quelle esperienze che in fondo ne erano una premessa storica e con cui (era) importante non recidere i fili.”
 A quella pubblicazione seguirono molte discussioni – che Miriam Mafai definì oziose – circa l’essere o meno di Bianca Guidetti femminista.
Non è questo il punto. Credo che, al di là delle etichette, sia stata in grado di farsi portatrice di una memoria non possessiva che, diversamente, avrebbe bloccato la possibilità di altri punti di vista sul passato suscitati dalle domande di oggi. Se quella memoria fosse stata esclusivo appannaggio di chi aveva direttamente vissuto quegli anni sarebbe stata identitaria, narcisista: è stato certamente più interessante – e determinante - aprirla a relazioni di differenza con le donne più giovani e con il femminismo.
“C’è un confine da tracciare tra parità e omologazione?”
 Bianca Guidetti se lo domanda insistentemente durante gli anni di piombo, quando assunse la difesa processuale di moltissimi terroristi e tra loro molte donne.
Anche in quelle terribili vicende non si prestò all’immunizzazione della distinzione tra “buoni” e “cattivi”, tra “perbene” e “permale”, ma le interessava capire perché, attraverso quali motivazioni, quali percorsi politici ed esistenziali tanta parte di una generazione scegliesse la lotta armata e come si declinasse, nell’essere donna, quella parità da lei stessa definita “distruttiva ed autodistruttiva”. Quel che è certo è che in quelle difese ha saputo interpretare uno spaccato della “meglio gioventù” rimasto stretto tra terrorismo, violenza statale, sordità dei partiti e fatica a convertire in passione civile quotidiana le grandi speranze insoddisfatte, in un momento non sospetto, perché facile era guadagnarsi il titolo di fiancheggiatore.
Il tema è certamente amplissimo ed apre un capitolo che ci porterebbe lontano. Quel che qui interessa osservare è che - in assenza di una ricognizione sul senso di quegli anni che ancora deve essere compiutamente affrontata sul piano storiografico
 - la grandezza dell’eredità di Bianca Guidetti sta nell’averci lasciato delle domande aperte e degli strumenti critici per trovare le risposte.
Un esempio per tutti. Con il femminismo della differenza avvertiva una certa distanza, quelle donne le sembravano un po’ elitarie, ma sono certa che le più autorevoli esponenti di quel pensiero – per citarne alcune Luce Irigaray, Judith Butler, Luisa Muraro - non avrebbero esitato a riconoscere come proprie, affermazioni quali “una donna ambiziosa che ricopre una carica per sua unica ambizione la trovo pessima come un uomo”
 oppure “come movimento delle donne non dovremmo accontentarci delle conquiste di più spazi, poteri, carriere, per misurarci invece con un loro uso diverso capace anche di ripensarne le finalità generali.”

Nell’ultimo periodo della sua vita stava raccogliendo materiale per un libro sulle donne collaborazioniste, non mi sorprende.
E ciò non perché la sfiorassero dubbi revisionisti, ma piuttosto perché conferma quanto urgente fosse il bisogno di comprendere, indipendentemente dall’accidentalità dei territori da attraversare. La sua ricerca sui moventi delle azioni umane, la comprensione dei comportamenti delle persone è sempre stata basata sulla convinzione dell’esistenza di “fili che legano i destini individuali alla storia collettiva.”

Ancora al termine della sua vita cercava una risposta, una via di uscita - non certo una resa - alla dolente domanda che si pone Corrado, il protagonista de “La casa in collina” alla fine del suo narrare: “E dei caduti che facciamo? Perché sono morti? Anche vinto il nemico è qualcuno (e) dopo averne sparso il sangue bisogna placarlo”.
Come si è visto, snodi cruciali del dibattito ancora oggi aperto nei campi numerosi praticati da Bianca Guidetti; a noi il compito di raccogliere quelle provocazioni intellettuali, di osare addentrarci dentro le ambiguità, le contraddittorietà e i rischi di rotture, senza mai smettere di interrogare la storia.

1 M. de Montaigne, Saggi, ed. Bompiani, 2012, pag. 589 

2 Di quella vicenda ha ricordato in un’intervista apparsa su “La Stampa” come fosse “Una storia di abusi. Che giustificava la volontà di ribellarsi. Dopo di allora nessuno poté più pensare di trattare così gli operai.”
3 B. Guidetti Serra, Compagne, 2 voll., ed. Einaudi, 1977
4 B. Guidetti Serra, Compagne, op. cit. pag. X
5 B. Guidetti Serra, Bianca la rossa, ed. Einaudi, 2009, pag. 263
6 B. Guidetti Serra, Bianca la rossa, ed. Einaudi, 2009, pag. 233
7 B. Guidetti Serra, op. cit. pag. 234
8 anche per il femminismo siamo in attesa di una storia che metta vicende e posizioni teoriche a confronto fra loro e in rapporto con gli eventi di quegli anni.
9 B. Guidetti Serra, Bianca la rossa, ed. Einaudi, 2009, pag. 234
10 B. Guidetti Serra, Bianca la rossa, op. cit., pag. 240
11 B. Guidetti Serra, Bianca la rossa, op. cit., pag. 18



Settembre 2014
Michela Quagliano

Post scriptum – Un personale ricordo

Era il Natale 1978, avevo da poco compiuto sedici anni. La zia della mia più cara amica mi regalò il libro “Compagne”, pubblicato qualche mese prima da Einaudi; mi disse che sarebbe stato un libro di formazione. Non si sbagliava.
Grazie a quell’incontro letterario imparai l’ideale di uguaglianza e l’urgenza di giustizia che ancora mi appartiene.
Diventare avvocato mi sembrò l’unico modo possibile per realizzare quel sogno adolescenziale.
Ancora oggi è così.