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lunedì 20 ottobre 2014

LA NOSTRA ASSURDA GUERRA CONTRO LA NATURA di George Monbiot


George Monbiot, The Guardian, Regno Unito, 1 ottobre 2014
tradotto e pubblicato su Internazionale n. 1073 del 17 ottobre 2014
I consumi stanno distruggendo un mondo infinitamente più affascinante e complesso dei beni che produciamo. Perché non ce ne rendiamo conto? 
Siamo arrivati al punto in cui chiunque sia capace di riflettere dovrebbe fermarsi e chiedersi cosa stiamo facendo. Se neanche la notizia che negli ultimi quarant’anni il mondo ha perso oltre la metà dei vertebrati (mammiferi, uccelli, rettili, anfibi e pesci) può farci capire che il nostro stile di vita è sbagliato, è difficile immaginare cosa potrebbe riuscirci. Chi può credere che un sistema sociale ed economico con questi effetti sia sano? Chi di fronte a una perdita del genere può definirlo progresso?
Per onestà va detto che l’era moderna è solo la prosecuzione di una tendenza che dura da due milioni di anni. La perdita di gran parte della megafauna africana sembra aver coinciso con il passaggio all’alimentazione carnivora compiuto dagli ante- nati degli esseri umani. Via via che abbiamo popolato gli altri continenti, anche la loro megafauna è scomparsa quasi subito. La datazione forse più affidabile dell’arrivo degli esseri umani in un luogo è proprio l’improvvisa scomparsa dei grandi animali. Da allora ci siamo addentrati nella catena alimentare eliminando i nostri predatori più piccoli, gli erbivori di medie dimensioni e adesso, con la distruzione dell’habitat e la caccia, stiamo cancellando la flora e la fauna di ogni tipo.
Una crescita per pochi
Tuttavia, la velocità distruttiva di oggi è inedita. Supera perfino quella del primo popolamento delle Americhe, 14mila anni fa, quando in poche decine di generazioni l’ecologia di un intero emisfero fu trasformata da una violenta estinzione che colpì numerose grandi specie vertebrate.
Per molti la colpa è dell’aumento della popolazione umana e non c’è dubbio che questo abbia contribuito. Ma ci sono altri due fattori determinanti: la crescita dei consumi e l’amplificazione dovuta alla tecnologia. Ogni anno si creano nuovi pesticidi, nuove tecniche di pesca, di estrazione mineraria e di lavorazione degli alberi. Abbiamo dichiarato guerra alla natura, una guerra che diventa sempre più asimmetrica. Perché siamo in guerra? Gran parte dei consumi dei paesi ricchi, che con le importazioni sono tra i primi responsabili di questa distruzione, non ha niente a che fare con i bisogni umani.
Quello che mi colpisce di più è proprio la sproporzione tra le perdite e i guadagni: la crescita economica di un paese i cui bisogni primari e secondari sono stati già soddisfatti equivale alla creazione di cose sempre più inutili per soddisfare desideri sempre più vaghi. Una delle caratteristiche della recente crescita nel mondo ricco è il numero esiguo di persone che ne ricavano un vantaggio. Quasi tutti i guadagni finiscono nelle mani di pochi: secondo uno studio del 2012 dell’università di Berkeley, negli Stati Uniti l’1 per cento più ricco intercetta il 93 per cento dell’aumento dei profitti prodotto dalla crescita. Perfino con tassi di crescita del due, tre per cento o superiori, le condizioni di lavoro della stragrande maggioranza della gente continuano a peggiorare. Le ore lavorative aumentano, gli stipendi ristagnano o diminuiscono, le mansioni diventano sempre più monotone, stressanti o difficili, i servizi peggiorano, gli alloggi sono quasi inaccessibili e ci sono sempre meno soldi per i servizi pubblici essenziali. A cosa e a chi serve questa crescita?
Serve a chi gestisce o possiede banche, società minerarie, aziende pubblicitarie, società di lobbying, fabbriche di armi, immobili, terreni, conti offshore. Noi siamo indotti a ritenerla necessaria e auspicabile da un sistema di marketing e d’influenza selettiva talmente intensivo e dilagante da riuscire a farci un lavaggio del cervello.
Così la grande erosione globale avanza consumando la Terra, cancellando tutto ciò che di più singolare e peculiare esista, sia nella cultura umana sia in natura, riducendoci ad automi rimpiazzabili in una forza lavoro globale omogenea, trasformando inesorabilmente le ricchezze del mondo naturale in un’anonima monocoltura. Non è il momento di dire basta? Non è ora di usare le straordinarie conoscenze e competenze accumulate per cambiare il modo di organizzarci, per contestare e rovesciare le tendenze che hanno determinato il nostro rapporto con il pianeta negli ultimi due milioni di anni e adesso distruggono ciò che resta a una velocità sorprendente? Non è il momento di mettere in discussione l’ineluttabilità della crescita infinita su un pianeta finito? Se non ora, quando?
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George Monbiot  è un giornalista, accademico, autore, ambientalista e attivista politico britannico. Tiene una rubrica settimanale sul giornale The Guardian:
http://www.theguardian.com/environment/georgemonbiot


mercoledì 24 settembre 2014

CIAO, BELLA CIAO - Ricordo dell'Avv. Bianca Guidetti Serra

 « Quelli che si esercitano a esaminare le azioni umane non si trovano mai così impacciati come nel metterle insieme e presentarle sotto la stessa luce: poiché in genere si contraddicono in modo così strano che sembra impossibile che siano uscite dalla stessa bottega. »
 Così afferma Michel de Montaigne nei suoi « Saggi ». Questa volta però l’ «impaccio» mi è estraneo perché Bianca Guidetti Serra ha disposto la sua vita secondo un ritmo certo e sicuro, privo di sbavature. Il suo pensiero va letto in trasparenza, come una filigrana sottile costantemente presente nel suo agire.
Già, perché di prassi si trattò e non tanto – o non solo – perché le piacque il “fare”, come ha scritto ed affermato tante volte, quanto piuttosto perché in questa egemonia della prassi come valore in sé -unica in grado di contrastare i lati oscuri del tempo - sembra riassumersi il senso più profondo della vita di Bianca Guidetti Serra.
Cosa lascia alle donne del terzo millennio?
Non solo le molte battaglie legislative – la legge sull’adozione, quella per la messa al bando dell’amianto – ma anche quelle giudiziarie volte a tutelare le donne lavoratrici dalle discriminazioni legate al sesso: prima fra tutte la clausola del “nubilato” che il datore di lavoro faceva sottoscrivere alle dipendenti al momento dell'assunzione, per riservarsi la possibilità di licenziarle qualora si sposassero; fu lei nel 1958 a mettere in piedi il primo processo per la parità salariale contro il potente Gruppo Finanziario Tessile dove le donne guadagnavano, a parità di lavoro, sette lire al giorno, gli uomini dieci. Vinse quella causa e il mondo del lavoro non fu più lo stesso. Pochi anni dopo venne ammessa, per la prima volta, la costituzione di parte civile del sindacato nel processo per le schedature Fiat
; fu la prima – lei che all’inizio della sua carriera di avvocato era una delle tre penaliste italiane quando gli iscritti erano circa un migliaio – a fare processi – e a vincerli – contro la monetizzazione della salute.
Non solo questo, dicevo.
Esistono anche le Madri della Patria, Bianca Guidetti fu una di queste e, anche se non le piacque la “politica dei palazzi”, anche se, come lei stessa ebbe a dire: “In Parlamento non si dovrebbe mai stare più di due legislature. Venire dal mondo del lavoro e tornarci subito dopo, per rimanere in contatto con la realtà del Paese”, sarebbe stato bello e importante vederla sedere tra i Senatori a vita perché la sua eredità più elevata sta nel contributo che ha fornito alla maturazione civile della Repubblica: la tutela legale delle donne ha rappresentato la prassi della teorizzazione – e dell’esortazione - di Piero Calamandrei laddove afferma, nel noto “Discorso sulla Costituzione” tenuto nel 1955, “La nostra Costituzione è in parte una realtà, ma soltanto in parte è una realtà. In parte è ancora un programma, un ideale, una speranza, un impegno di lavoro da compiere.”
Bianca Guidetti non si tirò indietro.
L’ideale di uguaglianza – unico ambiente in cui può pienamente affermarsi la giustizia – fu un filo rosso che attraversò la sua vita, faro che accese già al tempo della Resistenza, da fondatrice e animatrice dei clandestini "Gruppi di difesa della donna e per l’assistenza ai combattenti per la libertà". È del 1977 la pubblicazione del suo capolavoro “Compagne”
, il primo libro significativo sulla “Resistenza taciuta” – come è stata definita da molti storici. Per la prima volta viene data voce a quante non avrebbero ricoperto cariche politiche di rilievo, men che meno avrebbero tratto vantaggi economici dal loro impegno, a quante sarebbero tornate – spesso dopo l’esilio dai propri cari, il carcere, le torture, il confino – alle loro modeste, seppur decorose, vite. Bianca Guidetti ha trattenuto la memoria di quelle esistenze, strappandole all’oblio della storia grande.
Nelle vite raccolte in quel libro troviamo non solo l’esperienza di un ambiente nei suoi aspetti politici, ma anche in quelli di costume che ci restituiscono una testimonianza sociale ed elevano a dignità storica la narrazione orale. Così il tessuto, l’ordito della società si costruisce attraverso i racconti di Teresa, Clementina, Elvira e di tante altre per farsi storia di un intero movimento, racconti non di gesta eclatanti, ma di lavoro duro nelle filande, nei campi e poi di scioperi, di sabotaggi, di scambi di informazioni; il significato della loro testimonianza sta proprio in questo: “l’affermazione e la dimostrazione del valore e della portata della partecipazione dal basso, che si caratterizza e si qualifica per la fedeltà al proprio patrimonio ideale e al contempo per l’attenzione ai problemi immediati e concreti, per il rispetto delle grandi ma anche delle piccole cose.”

La potenza di quello sforzo letterario riguarda la forza e la radicalità grazie alle quali certi discorsi, certe idee danno forma all’esistenza particolare di ciascuno. Questa rivoluzione concettuale lungi dal rimanere confinata nella dimensione della pura teoria, mira piuttosto ad indicarci l’urgenza di un compito pratico.
Per le Compagne di Bianca Guidetti – come per lei medesima – la politica, la Resistenza, non era una scelta e nemmeno una possibilità, era assolutamente necessaria alla socializzazione; se Bianca Guidetti non avesse fatto politica, se non avesse incontrato la politica, la sua vita si sarebbe inserita in un destino medio borghese, in un percorso professionale abbastanza predestinato. Fare politica ha significato – per lei e per le Compagne – prendere in mano il proprio destino.
Furono le leggi razziali del 1938 a metterla, casualmente, come scrisse, di fronte agli orridi ostacoli del fascismo e dell’ingiustizia, ma non casualmente scelse di mettersi al centro della traiettoria di quegli ostacoli, di farne non solo la bandiera dell’esistenza, ma anche la sua cifra politica.
Hannah Arendt ha detto che l’essere umano è un animale politico, che c’è “politica” laddove si costruisce un interesse, uno stare insieme nella vita pubblica e si realizzano delle relazioni significative tra persone. Bianca Guidetti, entrata giovanissima in fabbrica dove scopre i problemi sociali, compie un ulteriore passo: non ha mai smesso di osservare la base antropologica della politica, registrandone i cambiamenti, nonché la base antropologica del nostro modo di pensare il soggetto politico.
È un lavoro che un po’ ha fatto il femminismo – molti anni dopo – ed era necessario, perché se non avesse fatto quel lavoro sulla soggettività non avremmo capito niente della politica delle donne e avremmo continuato a pensare a quello che pensava l’emancipazionismo, ovvero che fare politica significa ottenere più diritti. Sarebbe riduttivo opporre come Bianca Guidetti non fosse “antagonista per principio”
, perché, in realtà, non le interessavano gli obiettivi della politica quanto il come della politica.
Ora possiamo pensare a Bianca Guidetti come a un’icona – appellativo che non le piacerebbe – di un mondo perduto: quell’ormai così lontano secondo Novecento delle grandi battaglie civili vittoriose, lotte non dubitabili, né troppo condizionate da opzioni ideologiche e piuttosto ispirate da un umano e vitale senso di giustizia, da quel dovere del rispetto dell’Altro che le carneficine del fascismo e della guerra avevano reso un valore evidente.
“Compagne” fu scritto per rispondere all’esigenza “di riannodare il femminismo delle giovani generazioni, esploso dopo il Sessantotto, a quelle esperienze che in fondo ne erano una premessa storica e con cui (era) importante non recidere i fili.”
 A quella pubblicazione seguirono molte discussioni – che Miriam Mafai definì oziose – circa l’essere o meno di Bianca Guidetti femminista.
Non è questo il punto. Credo che, al di là delle etichette, sia stata in grado di farsi portatrice di una memoria non possessiva che, diversamente, avrebbe bloccato la possibilità di altri punti di vista sul passato suscitati dalle domande di oggi. Se quella memoria fosse stata esclusivo appannaggio di chi aveva direttamente vissuto quegli anni sarebbe stata identitaria, narcisista: è stato certamente più interessante – e determinante - aprirla a relazioni di differenza con le donne più giovani e con il femminismo.
“C’è un confine da tracciare tra parità e omologazione?”
 Bianca Guidetti se lo domanda insistentemente durante gli anni di piombo, quando assunse la difesa processuale di moltissimi terroristi e tra loro molte donne.
Anche in quelle terribili vicende non si prestò all’immunizzazione della distinzione tra “buoni” e “cattivi”, tra “perbene” e “permale”, ma le interessava capire perché, attraverso quali motivazioni, quali percorsi politici ed esistenziali tanta parte di una generazione scegliesse la lotta armata e come si declinasse, nell’essere donna, quella parità da lei stessa definita “distruttiva ed autodistruttiva”. Quel che è certo è che in quelle difese ha saputo interpretare uno spaccato della “meglio gioventù” rimasto stretto tra terrorismo, violenza statale, sordità dei partiti e fatica a convertire in passione civile quotidiana le grandi speranze insoddisfatte, in un momento non sospetto, perché facile era guadagnarsi il titolo di fiancheggiatore.
Il tema è certamente amplissimo ed apre un capitolo che ci porterebbe lontano. Quel che qui interessa osservare è che - in assenza di una ricognizione sul senso di quegli anni che ancora deve essere compiutamente affrontata sul piano storiografico
 - la grandezza dell’eredità di Bianca Guidetti sta nell’averci lasciato delle domande aperte e degli strumenti critici per trovare le risposte.
Un esempio per tutti. Con il femminismo della differenza avvertiva una certa distanza, quelle donne le sembravano un po’ elitarie, ma sono certa che le più autorevoli esponenti di quel pensiero – per citarne alcune Luce Irigaray, Judith Butler, Luisa Muraro - non avrebbero esitato a riconoscere come proprie, affermazioni quali “una donna ambiziosa che ricopre una carica per sua unica ambizione la trovo pessima come un uomo”
 oppure “come movimento delle donne non dovremmo accontentarci delle conquiste di più spazi, poteri, carriere, per misurarci invece con un loro uso diverso capace anche di ripensarne le finalità generali.”

Nell’ultimo periodo della sua vita stava raccogliendo materiale per un libro sulle donne collaborazioniste, non mi sorprende.
E ciò non perché la sfiorassero dubbi revisionisti, ma piuttosto perché conferma quanto urgente fosse il bisogno di comprendere, indipendentemente dall’accidentalità dei territori da attraversare. La sua ricerca sui moventi delle azioni umane, la comprensione dei comportamenti delle persone è sempre stata basata sulla convinzione dell’esistenza di “fili che legano i destini individuali alla storia collettiva.”

Ancora al termine della sua vita cercava una risposta, una via di uscita - non certo una resa - alla dolente domanda che si pone Corrado, il protagonista de “La casa in collina” alla fine del suo narrare: “E dei caduti che facciamo? Perché sono morti? Anche vinto il nemico è qualcuno (e) dopo averne sparso il sangue bisogna placarlo”.
Come si è visto, snodi cruciali del dibattito ancora oggi aperto nei campi numerosi praticati da Bianca Guidetti; a noi il compito di raccogliere quelle provocazioni intellettuali, di osare addentrarci dentro le ambiguità, le contraddittorietà e i rischi di rotture, senza mai smettere di interrogare la storia.

1 M. de Montaigne, Saggi, ed. Bompiani, 2012, pag. 589 

2 Di quella vicenda ha ricordato in un’intervista apparsa su “La Stampa” come fosse “Una storia di abusi. Che giustificava la volontà di ribellarsi. Dopo di allora nessuno poté più pensare di trattare così gli operai.”
3 B. Guidetti Serra, Compagne, 2 voll., ed. Einaudi, 1977
4 B. Guidetti Serra, Compagne, op. cit. pag. X
5 B. Guidetti Serra, Bianca la rossa, ed. Einaudi, 2009, pag. 263
6 B. Guidetti Serra, Bianca la rossa, ed. Einaudi, 2009, pag. 233
7 B. Guidetti Serra, op. cit. pag. 234
8 anche per il femminismo siamo in attesa di una storia che metta vicende e posizioni teoriche a confronto fra loro e in rapporto con gli eventi di quegli anni.
9 B. Guidetti Serra, Bianca la rossa, ed. Einaudi, 2009, pag. 234
10 B. Guidetti Serra, Bianca la rossa, op. cit., pag. 240
11 B. Guidetti Serra, Bianca la rossa, op. cit., pag. 18



Settembre 2014
Michela Quagliano

Post scriptum – Un personale ricordo

Era il Natale 1978, avevo da poco compiuto sedici anni. La zia della mia più cara amica mi regalò il libro “Compagne”, pubblicato qualche mese prima da Einaudi; mi disse che sarebbe stato un libro di formazione. Non si sbagliava.
Grazie a quell’incontro letterario imparai l’ideale di uguaglianza e l’urgenza di giustizia che ancora mi appartiene.
Diventare avvocato mi sembrò l’unico modo possibile per realizzare quel sogno adolescenziale.
Ancora oggi è così.


sabato 17 maggio 2014

Mauro Baldrati su Carmillaonline 4




di Mauro Baldrati
Kahlo2[Riassunto delle puntate precedenti 1 2 3: Rick e Max, giovani attivisti del movimento No Tav, sono stati condannati a trent’anni di carcere per avere bruciato un compressore d’aria durante una manifestazione. Evasi dal penitenziario, stavano cercando di raggiungere la Slovenia, dove speravano di trovare aiuto e protezione, quando sono stati catturati dai militanti del Partito Democratico, condotti in un carcere privato della Lega Coop, sottoposti a tortura e condannati ai lavori forzati a vita.]
Cinque anni. Cinque anni di lavoro in un’azienda della F.I.G.A. di Semoletti (Federazione Italiana Gastronomi Agricoltori) li avevano fatti uscire dalla realtà.
Ma era realtà?
Sembrava un viaggio nel tempo: la campagna aveva vaste zone incolte, e molti contadini si spostavano con carretti trainati da muli, o cavalli. Accanto alle case coloniche erano sorte capanne di legno coi tetti di paglia, e non era raro vedere qualcuno che arava coi buoi.
Qua e là, appesi agli alberi, penzolavano gli impiccati, divorati dai corvi e dalle cornacchie.
Rick e Max erano riusciti a fuggire dal campo di lavoro. Si trovavano in Calabria, tra le colline, in prossimità di Lagonegro, in un campo di papaveri da oppio. Questa infatti era una coltivazione sulla quale Semoletti stava investendo ingenti capitali.L’oppio veniva venduto ai laboratori di raffinazione sudamericani (trasportato con gli aerei del Ministero dell’Agricoltura) che lo trasformavano in eroina pura. Tutto regolare, il quarto governo Superbone aveva concesso alla F.I.G.A. l’appalto della coltivazione intensiva per “scopi scientifici”.
Ma c’erano dei problemi. La penetrazione di Semoletti in Calabria, terra particolarmente adatta a quel tipo di coltivazione, non era andata liscia come in Puglia. La Ndrangheta era un’organizzazione internazionale, molto potente. I boss non avevano accettato la sottomissione alla F.I.G.A. di Semoletti, come i loro colleghi pugliesi della Sacra Corona Unita. Quindi era nata una guerra, che il Primo Ministro Superbone non era riuscito a scongiurare, nonostante una sorta di invasione degli squadroni della morte montiani coadiuvati da truppe speciali dalemiane. Il giorno dell’evasione c’era stato un attacco della ndrangheta con mezzi blindati e bombe a mano. Era nato un violento scontro a fuoco che aveva permesso la fuga di numerosi schiavi. Molti erano stati catturati, o uccisi, ma Rick e Max avevano pianificato con cura la migrazione verso la Francia: camminavano solo di notte, restando nascosti di giorno, in grotte, boschi, case diroccate. La stagione estiva era favorevole.
Avevano risalito la penisola mangiando quello che trovavano, rubando dai frutteti, dagli orti, dai pollai, spesso soffrendo la fame per giorni, ma avanzando con una sorta di tenacia disperata, perché non c’erano dubbi sull’esito di una nuova cattura: li aspettava la garrota, la forma di esecuzione introdotta dal Partito Democratico per giustiziare i terroristi.
Dopo molte notti di marcia erano arrivati in Lombardia, nei pressi di Lodi. Avevano in programma una sosta a Milano, dove era attiva una cellula clandestina della Resistenza. L’aveva rivelato loro uno schiavo appena arrivato in Calabria, prima di essere ucciso a frustate dai guardiani dalemiani perché si rifiutava di lavorare.
Stava per albeggiare. Occorreva fermarsi. Anche perché erano stremati. Rick aveva certamente la febbre. Avevano mangiato avanzi andati a male, trovati in un cassonetto di rifiuti in prossimità di un supermercato Coop. Erano nascosti in un cespuglio ai bordi dell’aia di una fattoria. La casa colonica, grande, malandata, aveva i muri segnati dalla muffa e dall’umidità. Di fianco era stata costruita una capanna, rudimentale, con materiali di recupero, assi, lastre di plastica, un pezzo di cartellone pubblicitario.
“Entriamo lì dentro” disse Max. “Magari troviamo qualcosa, cibo, acqua, vestiti. Forse possiamo restare nascosti fino a questa notte.”
Avevano strisciato sull’aia, fino alla porticina sgangherata della capanna, che avevano aperto senza difficoltà. Era un deposito di vecchi attrezzi, con un soppalco carico di pannocchie di mais messe a seccare. Erano riusciti a mangiarne una a testa, masticando a lungo i chicchi per renderli una poltiglia che i loro stomaci infiammati avrebbero digerito senza danni.
Mentre stavano cercando un riparo dietro uno scaffale crivellato dai tarli la porta si spalancò. La luce già accecante del sole irruppe nell’ambiente polveroso, sagomando in controluce la forma minacciosa di un uomo che imbracciava una doppietta.
“Chi siete? Che volete?” disse. Sembrava anziano, con la schiena curva, i capelli bianchi, la barba non rasata.
Rick e Max alzarono le mani. “Per favore. Volevamo solo dormire un po’. Siamo viaggiatori, in cerca di lavoro.”
“Viaggiatori, eh?” disse l’uomo. Non c’era sarcasmo nella sua voce. Sembrava stanco, come rassegnato. Fece un passo, entrò nella capanna. Continuava a fissarli, senza parlare. “Voi siete i due terroristi evasi, altro che viaggiatori.” Rick e Max non fiatarono. Pensieri vorticosi si incendiavano nelle loro menti. Era finita? Era la morte definitiva della speranza? Potevano aggredirlo, disarmarlo? Ma poi che fare con gli altri occupanti della casa? “Lo so chi siete” disse l’uomo, dopo una lunga pausa. “La televisione ha parlato molto di voi. Quelli” soggiunse, indicando l’esterno, “vi cercano come dei matti. Siete pericolosi, dicono. Pericolosi per loro. Beh, sapete cosa vi dico? Vi aiuterò. Perché i loronemici sono miei amici”
L’interno della casa era pulito, ordinato, benché fosse evidente la povertà. Sul fuoco del camino stava iniziando a bollire un paiolo. Una donna vestita di nero rimestava con un mestolo di legno. Non c’era una cucina moderna, ma un vecchio lavello di ceramica annerita, con un rubinetto del tipo industriale. Niente acqua calda, e il gas era staccato.
“Colpa delle bollette non pagate” disse la donna, la moglie dell’uomo. “E chi può pagarle? Il governo ha rincarato le tariffe fino a renderle inaccessibili. Non abbiamo neanche la luce, a parte un piccolo generatore, appena sufficiente per la televisione”.
Rick e Max infatti erano rimasti stupiti per la presenza di un televisore moderno, che strideva palesemente in quel contesto neo-arcaico.
“Tutti devono avere un televisore” disse l’uomo. “Anche chi non può permettersi il pane. Il governo li distribuisce gratuitamente, col generatore, perché i cittadini, dicono, devono essere informati. Vale a dire devono sorbirsi le prediche e le balle quotidiane di quei maledetti bastardi figli di puttana maiali ladri assassini…”
kahlo_il_piccolo_cervoLa donna lo interruppe prendendogli una mano. “Basta Arturo, ti prego. Non serve a nulla arrabbiarsi così. Ti fai solo del male. Ti rovini il cuore, e il cervello. E fai del male anche a me.”
L’uomo, che era diventato paonazzo, sembrò calmarsi. “Hai ragione, Rosa. Tanto quelli continuano a prosperare, mentre noi moriamo di fame.” Rick e Max addentarono un pezzo di pane, sul quale avevano spalmato un sottile strato di lardo tenero come il burro. “Si prendono tutto. A noi resta appena il necessario per non crepare. Gli esattori del partito arrivano tre volte all’anno e dobbiamo consegnare loro il raccolto, gli insaccati del maiale, il latte, tutto. E guai a nascondere qualcosa. Se ci scoprono veniamo frustati a sangue. Oppure uccisi sul posto, dipende dalla gravità del reato.”
La donna sospirò. Poi allungò una mano e appoggiò un palmo sulla fronte di Rick.
“Questo ragazzo ha la febbre” disse. “Dobbiamo portarlo dalla Stellina.”
“La Stellina?” disse Max.
“Sì, è una vecchia signora che cura noi contadini con le erbe” disse.
L’uomo ebbe uno scatto, come se volesse prendere a pugni l’aria. La donna, ancora una volta, lo calmò. “Voi ragazzi siete stati fuori dal mondo per cinque anni, giusto?” Rick e Max annuirono. “Scommetto che nel vostro campo di lavoro c’era la televisione. Perché c’èsempre la televisione.” Rick e Max annuirono di nuovo. “Scommetto che non facevano che ripetere che va tutto bene, benissimo, no? Che il governo lavora per risolvere i problemi del paese, giusto?” Rick e Max confermarono. La televisione, che era sempre accesa, non parlava d’altro. Avevano visto spesso anche il sosia di Riccardo Schicchi che predicava. “Beh, non esiste più niente” disse l’uomo. “Il paese non esiste più. La sanità è stata completamente privatizzata e affidata all’Unipol, che gestisce le cliniche private. Noi ne siamo esclusi. Come le pensioni del resto. Non possiamo pagare le quote. E’ tutto riservato a loro, i dirigenti del partito, i militanti, e i padroni.”
La donna sospirò di nuovo, col capo chino. “Però la Stellina è bravissima, trova sempre la cura, per tutti.”
In quel momento, con uno schianto, la porta si spalancò. Due uomini si affacciarono sulla soglia. Sembravano incerti, barcollanti. Impugnavano mazze da baseball.
“Allora, bifolco, dov’è lei?” disse uno. La voce era rauca, la lingua impastata. Erano sbronzi. Un forte odore di alcol si stava diffondendo nella stanza. “Eh, lurido contadino? Eh, miserabile morto di fame? Dov’è la tua bella figlioletta? Dove la nascondi?”
L’uomo si alzò, andò di fronte ai due uomini e si inginocchiò. “Vi prego, ragazzi, vi scongiuro. Ha solo quattordici anni. Lasciateci in pace.”
I due sghignazzarono. “Appunto, pezzente! Quattordici anni, una bella prugna ancora acerba! Tirala fuori, se non vuoi che bruciamo questa topaia!”
Rick e Max li osservarono attentamente: giovani, capelli scuri, facce ghignanti: renziani, senza ombra di dubbio. E quindi con l’istinto compulsivo dello stupro.
D’un tratto i due si accorsero di loro, pur tra i fumi della sbronza, e iniziarono a fissarli.
“Ehi, chi sono questi due stronzetti?”
“Ma io li ho già visti” soggiunse l’altro. “Sì, sono… sono…”
Rick e Max scattarono. Benché indeboliti dalla lunga marcia, e dalla denutrizione, avevano muscoli solidi, formati e consolidati dal duro lavoro nel campo. In un attimo furono addosso ai due renziani, i quali, ubriachi com’erano, non furono in grado di opporre resistenza. Max strappò la mazza al primo, che usò per colpirlo ripetutamente alla testa, sfondandogli il cranio, Rick trascinò l’altro sul pavimento, dove lo strangolò senza sforzo.
Si rialzarono, guardarono i due cadaveri, ansimando.
L’uomo era ancora in ginocchio, esterrefatto. La donna piangeva con la faccia tra le mani.
Il tempo sembrava fermo, la scena era immobile.
“E ora?” disse l’uomo, rialzandosi. Li avete uccisi. Per noi è finita. Saremo sterminati.”
Max andò verso la porta di ingresso, guardò fuori.
“Dovevamo farlo” disse Rick. “Vi avrebbero accusati di dare ospitalità a due terroristi, vi avrebbero uccisi tutti.”
“Lì fuori c’è la loro auto” disse Max. “Vado a nasconderla dietro la casa. Non si vede nessun altro in giro.” E uscì.
“Erano soli” disse Rick. “Secondo me andrà tutto bene. Dobbiamo solo seppellire i cadaveri. L’auto la porteremo lontano da qui, e la bruceremo. Non potranno risalire fino a voi.”
Si udì il motore accendersi, in cortile. Dopo qualche minuto Max rientrò.
“Seppellire i cadaveri?” disse l’uomo, con voce cupa. “Non è così semplice. Dobbiamo scavare una buca profonda, con le pale. Non abbiamo più le macchine, siamo stati costrette a venderle. Qualcuno potrebbe notarci. Gli esattori del partito sono sempre in giro, controllano, sorvegliano. E ogni giorno passa un elicottero.”
Tutti tacquero, per lunghissimi, interminabili minuti. Ognuno era immerso nei propri pensieri. Ed erano pensieri oscuri. Rick e Max si sentivano in colpa per ciò che avevano causato a quella famiglia. L’uomo e la donna erano travolti dall’angoscia.
Fu la donna, che uscì dalla sua disperazione, a proporre una soluzione.
Kahlo-Busto-in-gesso“Tagliamoli a pezzi. In tanti pezzi. Possiamo disperderli qua e là, seppellirli in piccole buche. Giù in cantina abbiamo tutto pronto per la macellazione del maiale, tra un mese.”
L’uomo annuì, mentre sembrava riflettere intensamente. “La macellazione, certo…” guardò verso la porta che conduceva in cantina. “Hai avuto una buona idea, Marta… ma possiamo… migliorarla. Possiamo addirittura ricavarne un utile.”
“Che vuoi dire?” chiese la donna.
“Sì… farò delle salsicce, dei cotechini, e dei prosciutti che sembreranno culatelli. Nessuno se ne accorgerà. E quando arriveranno gli esattori li daremo a loro, mentre per noi terremo quelli di maiale, che nasconderemo. Così… così…”
Si scambiarono occhiate, guardarono i cadaveri, tornarono a fissarsi, meditabondi.
“Così… quei cani rabbiosi si mangeranno tra loro!” conchiuse l’uomo. Poi guardò la donna, guardò Rick e Max, chinò il capo e disse: “Pensate cosa mi tocca fare, io, che prima dell’avvento di questo regime di belve ero vegetariano!”
E in quel momento tragico, coi due cadaveri scomposti sul pavimento, con una minaccia mortale che incombeva sulla casa come una creatura mostruosa, coi cuori oppressi dall’ansia e dall’incertezza del futuro, con quell’energia particolare, unica nel variegato mondo delle creature viventi che abitavano il pianeta Terra, quell’energia che porta l’uomo a staccarsi dalle situazioni, a rompere la spirale naturale di causa-effetto, di aggressione-fuga, incurante della tragedia che lo sfiora con le sue ali nere, i quattro personaggi che in quel momento abitavano la povera casa, ignorando tutte le incognite che sembravano vaporizzare il concetto stesso di realtà, scoppiarono in una lunga, torrenziale, liberatoria risata.
[Le vicende qui narrate sono finzioni letterarie. In esse compaiono nomi e circostanze reali in qualità di pure occasioni narrative. I nomi di personaggi e di enti del mondo della politica e dell’economia vengono usati soltanto ai fini di denotare figure, immagini e sostanze dei sogni collettivi che sono stati formulati intorno ad essi, e si riferiscono quindi a un ambito mitologico che non ha nulla a che vedere con informazioni o opinioni circa la verità storica effettiva degli avvenimenti o delle persone su cui questo racconto elabora una pura fantasia]
Le immagini sono di Frida Kahlo
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venerdì 16 maggio 2014

Mauro Baldrati su Carmillaonline 3




george_grosz_023_interrogatdi Mauro Baldrati
Riassunto delle puntate precedenti 1 e 2: Rick e Max, giovani attivisti del movimento No Tav, sono stati condannati a trent’anni di carcere per avere bruciato un compressore d’aria durante una manifestazione. Evasi dal penitenziario, stavano cercando di raggiungere la Slovenia, dove speravano di trovare aiuto e protezione, quando sono stati catturati dai militanti del Partito Democratico, condotti in un carcere privato della Lega Coop, e sottoposti a tortura.
Rick cercò di massaggiare l’articolazione della spalla slogata. In certi momenti il dolore diventava insopportabile. L’altra articolazione era miracolosamente rimasta intatta dopo ripetute applicazioni della tortura della corda, una pratica che risaliva all’Inquisizione. Erano procedure superate, gli specialisti dalemiani usavano i farmaci, come tutti, ma “due sporchi terroristi NO TAV” non meritavano neanche la spesa di un’aspirina.
Max aveva due dita fratturate e una ferita, causata da un chiodo conficcato nella mano destra, che si era infettata. Gemevano, ormai ridotti a ombre, spettri tra altri spettri, nella sala buia e quasi priva di ossigeno del carcere privato della Legacoop.
Non avevano rivelato nulla, nonostante i ripetuti interrogatori. D’altra parte cosa avrebbero potuto rivelare? I loro compagni del movimento erano stati quasi tutti arrestati. In quanto al “covo” sloveno, che sembrava interessare molto i dirigenti del Partito Democratico preposti alla repressione dei NO TAV , non avevano informazioni precise, a parte l’indirizzo di un bar dove “forse” avrebbero potuto incontrare qualcuno. Ovviamente i dalemiani non credevano una parola, e avevano continuato a torturarli fin quasi a ridurli in fin di vita.
“Ed ora?” chiese Rick. “Cosa succederà?”
Max non rispose. La debolezza, la disidratazione lo privavano di ogni energia.
“Ora vi processeranno” disse l’uomo barbuto che ormai impersonava il cicerone degli orrori. “Sarete condannati alla forca, o al plotone di esecuzione, o alla galera a vita. Dipende dal giudice. E’ discrezionale.”
Rick sospirò. Tutto era discrezionale, dopo che il terzo governo Superbone aveva privatizzato la giustizia, affidandola ai tribunali privati del Partito Democratico, e tutto il sistema di detenzione e pena, appaltandolo alle aziende della Legacoop.
Forse era mattina, forse era notte – la concezione del tempo era saltata nella stanza buia, senza finestre – quando la porta si spalancò e quattro energumeni dalemiani irruppero nella cella. Frugarono con le torce elettriche tra i presenti, allontanarono a calci i soliti disperati che invocavano acqua, finché individuarono Rick e Max, accasciati sul pavimento. Max fu trascinato fuori per i capelli, Rick per i piedi. In corridoio, imprecando, furono costretti a trasportarli con una barella, vista l’impossibilità di camminare.
Max si sentì afferrare per i polsi e per le caviglie, poi la testa gli girò e lo stomaco si rivoltò, perché ondeggiava in orizzontale, mentre i guardiani gridavano “oh-ohh-ho!”, e lo lanciavano in una camera, dove atterrò con violenza sul pavimento, sbattendo la testa e perdendo i sensi. Un colpo altrettanto violento lo fece per un attimo rinvenire: il corpo di Rick che precipitava su di lui.
Quando riaprì gli occhi, forse per gli schiaffi che qualcuno gli sferrava, forse per l’acqua che gli veniva versata sulla faccia, vide varie persone intorno a lui. Numerosi occhi scuri lo fissavano. Volti giovani, ghignanti. Qualche donna, giovane e carina, lo indicava con un dito e ridacchiava.
Renziani.
Non c’erano dubbi.
Erano caduti in mano ai renziani.
Ora non esistevano più alternative.
Allo stupro selvaggio.
“Ma come sono messi questi qua?” disse una voce. Chi aveva parlato sedeva indolente su una poltrona rossa, con una coperta sulle gambe. Era un tipo scuro di capelli, dalla fisionomia inconfondibile: il deputato sosia di Riccardo Schicchi, lo stupratore ufficiale del Partito Democratico, colui che rivendicava lo ius primae noctis. Sì, era davvero finita. L’ultimo atto. “Non vedete che sono coperti di merda e di pidocchi?” Risatine e squittìì tra i renziani. “Andate subito a lavarli. E disinfettateli. E fategli anche un’iniezione di metamfetamina, sono morti in piedi!”
george-grosz-hintergrund-p7I vestiti, fradici e puzzolenti, vennero tagliati con le forbici. Poi Rick e Max furono posti di fronte a un muro rivestito di piastrelle, e un guardiano li irrorò con un idrante. La pressione era elevata, e l’acqua quasi bollente, oltre che odorosa di disinfettante.
In condizioni normali sarebbero stramazzati al suolo, ma l’anfe correva furiosa nelle loro arterie, lanciava staffilate lungo la schiena, scariche nello stomaco, e li teneva in piedi con la sua forza bruta.
Nudi, gocciolanti, tremanti, vennero condotti per corridoi rivestiti di moquette, tra i lazzi, le risate e gli insulti di chi li incrociava. Qualcuno li spintonò, altri li colpirono con calci o scapaccioni. Ci fu chi sputò loro in faccia.
Di nuovo nella camera, di nuovo di fronte al sosia di Riccardo Schicchi, che era sempre seduto mollemente sulla poltrona.
“Inchinatevi di fronte all’onorevole presidente!” urlò uno dei giovanotti renziani. Un colpo dietro le gambe, sferrato con una mazza, li fece stramazzare in ginocchio.
Nessuno si mosse. Nessuno parlò.
Tutti aspettavano.
Soprattutto non parlava, né si muoveva, il sosia di Riccardo Schicchi.
“Sono due cadaveri” disse infine, con voce piatta. “Mi fa schifo farmi succhiare l’uccello da due zombies. Dategli qualcosa da mangiare, e da bere. Che prendano un po’ di colore.”
Mani li afferrarono, li trascinarono. Con calci, sberle e pizzicotti li costrinsero a mettersi a quattro zampe, poi vennero poste loro di fronte due ciotole a testa: una conteneva una poltiglia di un colore marrone scuro, l’altra acqua.
“Mangiate, cuccioli bastardi!”
Max iniziò a ingoiare la poltiglia. Era cibo per cani, spezzatino, polpette. Squisito. Saporito, tenero. Non mangiavano qualcosa di solido da settimane. Li avevano nutriti con una specie di brodo andato a male, dove i guardiani dalemiani orinavano.
Bere era più complicato. Come appartenenti alla specie umana non disponevano di una lingua sovradimensionata come i canidi, per cui dovevano succhiare, mentre i renziani li molestavano di continuo con pizzicotti e sculacciate.
Mangiare e bere li rinfrancò, e diede nuovo impulso alla forza motrice dell’anfe, che ruggiva nelle vene e negli organi interni.
Nuovamente in ginocchio davanti al sosia di Riccardo Schicchi.
In attesa.
Dell’inevitabile.
Il sosia di Riccardo Schicchi, con un gesto brusco, gettò via lo coperta. Sotto era nudo. Un pene di ragguardevoli dimensioni, già eretto, sembrava volersi protendere verso di loro.
“E ora” disse, con uno dei suoi ghigni linguacciuti, “datevi da fare, miei piccoli, adorabili, disgustosi maialini.”
george-grosz-hintergrund-p2Fecero loro indossare una specie di djellabah, una tunica bianca larga, svolazzante, pulita e ruvida. Così abbigliati, a piedi nudi, percorsero per l’ennesima volta lunghi corridoi, fino a una doppia porta di legno chiaro, spalancata, al di là della quale si intravedeva un tavolo di legno scuro.
Vennero condotti in un spazio recintato da sbarre di legno, alte circa un metro. Non c’erano sedie, per cui restarono in piedi.
Ancora confusi, anche per la metamfetamina che, in fase calante, confondeva loro i sensi, lanciarono occhiate in tutte le direzioni, occhiate voraci, forse disperate, per cercare di capire, o per avere conferme: alla loro destra, dietro a un tavolo piccolo, sedevano due persone, un uomo e una donna. Un altro uomo dall’aria indefinibile, con la testa bassa, sedeva a sinistra. Altri erano i piedi, addossati ai muri. E di fronte, dietro al tavolo di legno scuro, sedeva un tipo coi capelli grigi, una barbetta curata, un ciuffo ribelle da intellettuale sulla fronte.
Max lo riconobbe subito: era uno dei ministri plenipotenziari di Superbone, che si dilettava a presiedere i tribunali.
Perché quello era un tribunale.
Dunque li stavano processando.
E quel giudice, di cui non ricordava il nome, era famoso per la sua mancanza di pietà. Tutti ne parlavano. Non era cattivo, cioè non era dotato del sadismo naturale dei dalemiani, o dell’arroganza e della crudeltà adolescenziali dei renziani; semplicemente era del tutto privo di compassione umana.
“Apriamo il procedimento contro Ricciardi Massimo e Robecchi Riccardo” disse il giudice, fissandoli. I suoi occhi erano freddi, calcolatori. “Siete accusati di terrorismo, sabotaggio, devastazioni, attentato dinamitardo, resistenza a pubblico ufficiale, nonché dell’evasione violenta dal penitenziario di Piacenza.”
Violenta? Ma che stava dicendo, pensò Max. Semplicemente un secondino aveva dimenticato la porta aperta.
“La parola all’accusa” disse il giudice, indicando l’uomo e la donna seduti sulla destra.
Si alzò l’uomo, che si portò di fronte al tavolo.
“I due terroristi qui presenti sono tristemente famosi per le loro reiterate azioni di sabotaggio, nel corso delle quali ci sono stati numerosi feriti, oltre che danni molto gravi ad attrezzature tecniche, macchinari, utensili. Quando sono evasi dal penitenziario un agente di custodia, da loro aggredito, è rimasto gravemente ferito e rischia l’invalidità permanente.”
L’avvocato dell’accusa stava per continuare, ma il giudice alzò una mano. “Basta così, avvocato, grazie. Ho letto i rapporti. Ora voglio sentire la difesa. Prego, avvocato.”
Si alzò l’uomo che si trovava a sinistra. Aveva un’aria dimessa, un’espressione infelice sul volto pallido. Le spalle, gracili, erano spioventi, forse per l’abitudine di tenere la schiena curva. La corporatura, i modi, l’età, l’energia compressa, la postura depressiva lo qualificavano senza alcun dubbio come un fassina-civatiano.
“Signor giudice” esordì con voce bassa, poco più che un sussurro, “io… non sarei d’accordo con certi sistemi. Secondo me… dovremmo garantire qualche garanzia in più… ecco, agli accusati…”
Il giudice ebbe un moto di fastidio che fece immediatamente tacere l’avvocato della difesa.
Secondo me” disse, con voce tagliente, facendogli il verso. Fissò Rick e Max, fissò l’avvocato. I suoi occhi bruciavano di gelido disprezzo. “Sa cosa le dico avvocato? Secondo me lei deve piantarla di rompere i coglioni e fare il suo dovere! E’ chiaro?”
L’avvocato fassina-civatiano ascoltava immobile, con le braccia inerti lungo i fianchi.
“Dunque ha qualcosa di interessante da dire? Un’obiezione? Vuole pronunciare un’arringa?”
L’avvocato fassina-civatiano non alzò il capo. Parlò rivolto al pavimento. “No signor giudice. La difesa non ha nulla da aggiungere.”
“Oh. Questo si chiama parlare. Bene, torni al suo posto allora.”
L’avvocato, come un automa, raggiunse il suo tavolo, dove restò immobile, col capo chino, le mani giunte.
Il giudice tornò a fissare Rick e Max. I gelidi occhi grigi erano rasoi di ghiaccio che li tagliavano a fette.
“Ricciardi e Robecchi” disse, dopo una lunga, minacciosa pausa. “Col vostro agire avete creato gravissimi danni alla crescita e al progresso di questo paese. La vostra filosofia è solo distruttiva, i vostri cosiddetti ideali confusi e negativi. Il vostro egoismo è criminale. Voi non siete nulla, non rappresentate nessuno, a parte il vostro rancore, la vostra violenza e il vostro isolamento. Per cui, sentiti i rappresentanti dell’accusa e della difesa, ed esaminati gli atti, questa corte vi giudica colpevoli di terrorismo, con l’aggravante dell’odio sociale. La pena adeguata ai criminali sociali come voi sarebbe il plotone di esecuzione, ma il nostro Presidente del Consiglio, nella sua lungimiranza, ci sta chiedendo di essere magnanimi, comprensivi a generosi. Pertanto vi condanno all’ergastolo, da scontare ai lavori forzati, senza sconti di pena né concessione di permessi, presso le aziende della filiera agro-alimentare Figa. I vostri guadagni saranno interamente confiscati, per ripagare almeno in parte i danni che avete provocato al vostro paese. La seduta è tolta.”
E sferrò un colpo sul tavolo con un martelletto, proprio come nei film.
George-Grosz“Magnanimi un corno” disse Rick, senza smettere di fissare il soffitto della cella. “Il fatto è che Semoletti ha bisogno di nuovi schiavi.”
“Semoletti, eh?” disse Max, che era steso sulla branda a castello sottostante. Dalla sua posizione vedeva la finestra con le sbarre. La cella era piccola, ma pulita. Erano in attesa del trasferimento al campo di lavoro, li avevano ripuliti, curati, nutriti. Semoletti li voleva in forze, i lavoranti.
L’imprenditore miliardario del Partito Democratico, uno dei grandi spin-docktor di Superbone, era continuamente in espansione con la sua Figa (Federazione Italiana Grastronomi Agricoltori. Il nome era dovuto al fatto – secondo l’idea di Semoletti, peraltro suffragata dai risultati di mercato – che i prodotti italiani all’estero con quel marchio avrebbero goduto di uno straordinario appeal). La manodopera scarseggiava. Superbone aveva dato disposizioni che gli venissero assegnati i detenuti, oltre ai pochi immigrati che ancora si azzardavano a mettere piede in Italia, dove venivano immediatamente catturati e ridotti in schiavitù. Era leggendaria la sua entrata in scena in Puglia, con lo scopo di impadronirsi di tutta la produzione agroalimentare. Suoi inviati si erano presentati dai boss della Sacra Corona Unita intimando loro di aderire alla Figa. A Semoletti interessava soprattutto la rete di capolarato, che garantiva ogni giorno centinaia di braccianti a basso costo, senza contratto. I boss scoppiarono a ridere. Erano loro i padroni, chi cazzo credeva di essere questo Semoletti?
Il problema era serio, e andava risolto in fretta. Una guerriglia con la mafia pugliese avrebbe avuto effetti deleteri sul governo “del fare”. Così il Premier Superbone ebbe un’idea geniale: affidò le operazioni a un gruppo di nuova formazione, di cui si iniziava molto a parlare: i mercenari montiani. Spietati, efficienti, erano considerati assolutamente affidabili.
A bordo di SUV corazzati, armati con fucili automatici e lanciarazzi anticarro RPG, prelevarono i boss dalle ville fortificate e li giustiziarono sul posto con un colpo alla nuca. Poi, secondo la tradizione antica, i famigliari, i parenti, gli amici presenti furono tutti massacrati, e le ville date alle fiamme. Immediatamente dopo i sopravvissuti, coi loro affiliati, divennero dei “collaboratori” della Figa.
I giorni seguenti Superbone si presentò agli italiani dal video del network dove, adulato e magnificato dai “giornalisti” televisivi, annunciò con enfasi e un numero incalcolabile di sorrisi che la mafia pugliese era definitivamente smantellata. Secondo i sondaggi il suo indice di popolarità passò dall’82.54 all’89,91%.
“Così ora siamo diventati schiavi di Semoletti” disse Rick, con la sua migliore aria fatalista.
“Poteva andare peggio” ribatté Max. “Potevano impiccarci, strangolarci con la garrota. Ce la faremo.”
“Ah, sì? Certo, lavorando dieci-dodici ore al giorno sette giorni su sette. Beh, almeno ci daranno da mangiare, giusto?”
Sarcarsmo nella sua voce. Max si alzò in piedi, costrinse anche l’amico a fare altrettanto.
Lo abbracciò, lo strinse forte.
“Ce la faremo ti dico. Fuggiremo. Siamo sempre fuggiti. Non riusciranno a tenerci.”
“E poi?” disse Rick, con la bocca premuta contro la sua spalla. “Dove andremo? Ci cattureranno di nuovo.”
“Non è detto. Abbiamo imparato molto, nel frattempo. Cammineremo di notte, niente passaggi, niente autostrada. Andremo in Francia. Si sta creando una resistenza, ce la faremo ti dico. Abbatteremo i mostri, distruggeremo i demoni.”
Rick respirava forte. Il suo corpo era scosso da una vibrazione, come una scarica elettrica.
Cercava di nascondere la testa. Cercava protezione.
Forse piangeva.
Oppure rideva.
(Fine?!?!)
(Le immagini sono di George Grosz)
[Le vicende qui narrate sono finzioni letterarie. In esse compaiono nomi e circostanze reali in qualità di pure occasioni narrative. I nomi di personaggi e di enti del mondo della politica e dell’economia vengono usati soltanto ai fini di denotare figure, immagini e sostanze dei sogni collettivi che sono stati formulati intorno ad essi, e si riferiscono quindi a un ambito mitologico che non ha nulla a che vedere con informazioni o opinioni circa la verità storica effettiva degli avvenimenti o delle persone su cui questo racconto elabora una pura fantasia]