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domenica 12 ottobre 2014

IO STO CON LA SPOSA - 6 NOVEMBRE CINEMA CONDOVE ORE 21.00



assolutamente da non perdere!

proiezione al cinema di Condove

Giovedi 6 Novembre ore 21


in collaborazione con il Comune


un film di Antonio Augugliaro, Gabriele Del Grande e Khaled Soliman Al Nassiry
"Siamo partiti dal basso, abbiamo tenuto duro nei momenti più difficili e adesso eccoci qui! Con voi a cambiare l'estetica della frontiera. E a sdoganare al grande pubblico l'idea della libera circolazione e della disobbedienza civile".




Riportiamo da www.lasicilia.it un commento al film:



«C’è un sole unico per tutta l’umanità, una sola luna. Anche il mare è di tutti, così la vita. È di tutti e per tutti». A ricordarcelo è Tasneem Fared, giovane sposa palestinese in viaggio da Milano a Stoccolma con l’abito bianco indosso, il futuro marito al fianco e un corteo di amici siriani, palestinesi e italiani al seguito. Tutti protagonisti del coraggioso film-documentario “Io sto con la sposa” di Gabriele Del Grande, Antonio Augugliaro e Khaled Soliman Al Nassiry, uscito nelle sale italiane il 9 ottobre.
Coraggioso ed emozionante perché non è un matrimonio come tanti, quello di Tasneem e Abdallah. La scintilla si accende quando il giornalista Gabriele Del Grande – classe 1982 e già l’esperienza sul campo delle primavere arabe e della guerre in Libia e in Siria – e il poeta palestinese siriano Khaled Soliman Al Nassiry – ormai milanese di adozione – incontrano a Milano cinque palestinesi e siriani in fuga dalla guerra, sbarcati a Lampedusa e alcuni sopravvissuti alla tragedia dell’11 ottobre di un anno fa, quando a distanza di una settimana dalla precedente strage in mare, al largo dell’isola morirono altri 260 profughi siriani, tra cui almeno sessanta bambini. Per Abdallah, i coniugi Mona e Ahmed, il giovanissimo Manar e suo padre Alaa l’Italia è solo un luogo di passaggio. Per questo sono decisi a proseguire il viaggio, come tanti altri, verso la Svezia. Ancora da clandestini. Le leggi italiane ed europee sull’immigrazione, infatti, non danno loro altra scelta, così Gabriele e Khaled, piuttosto che lasciarli nuovamente in balia dei trafficanti di uomini che gestiscono anche il contrabbando via terra verso nord, decidono di aiutarli con un atto di disobbedienza civile che potrebbe costare loro fino a quindici anni di prigione. Mettono, quindi, in scena un finto matrimonio travestendo da sposi l’amica Tasneem e il “fuggitivo” Abdallah e da invitati alla cerimonia una decina di altri amici e affidano al regista milanese Antonio Augugliaro il compito di documentare il viaggio vero, folle e miracoloso di questo improbabile corteo nuziale attraverso l’Europa.Tremila chilometri in quattro giorni, tra il 14 e il 18 novembre 2013, sulla strada che da Milano deve portarli a Stoccolma. In auto fino a Ventimiglia, a piedi attraverso il “Passo della morte” che a Grimaldi Superiore segna il confine tra Italia e Francia e poi di nuovo in auto attraverso il Lussemburgo fino a Bochum in Germania e Copenaghen in Danimarca, ultima tappa prima di raggiungere la Svezia. Ogni passaggio di frontiera, confine, dogana è un’esplosione di tensione, prima, e di gioia, dopo. Una gioia che va festeggiata doppiamente, dato che ad accogliere il corteo ci sono di solito amici e parenti lasciati anni addietro nei rispettivi Paesi di origine e rincontrati adesso per la prima volta. Come ad un vero banchetto di nozze, dove si canta, si brinda, si balla, anche per esorcizzare il dolore e la malinconia che riempiono i loro racconti.“Io sto con la sposa”, realizzato grazie ad una efficace campagna di crowdfounfing online sulla piattaforma Indiegogo (100 mila euro in 60 giorni con il contributo di 2617 persone in 38 Paesi) apre tappa dopo tappa, uno squarcio nelle vite dei protagonisti. Che si raccontano ricordandoci le contraddizioni spesso crudeli e spietate del sistema Europa e l’orrore da cui fuggono migliaia di uomini, donne e bambini che per la disperazione arrivano a pagare mille dollari a testa per morire in mare. Racconti cui dà voce anche il rap grintoso e insieme struggente del piccolo Manar, un vero giovanissimo talento che esprime in musica tutta la maturità prematura che l’esperienza di vita gli ha fatto fiorire dentro. «Quanti occhi hanno pianto mentre il mondo restava a guardare? » canta Manar, ripercorrendo la storia di un popolo senza terra, da sempre costretto allo status di rifugiato. Un popolo che resterà unito «anche se la morte si sarà accampata dentro di noi».Oggi, nove mesi dopo il viaggio, Abdallah, Mona e Ahmed vivono in Svezia dove hanno ottenuto lo status di rifugiato politico. Manar e suo padre Alaa, invece, sono stati respinti in Italia dove però hanno ottenuto asilo politico. Tasneem è tornata in Italia con Gabriele, Khaled e gli altri invitati. Il documentario è “dedicato ai nostri figli perché ricordino sempre che nella vita arriva il momento di scegliere da che parte stare”. Io sto con la sposa. E tu?

venerdì 18 luglio 2014

Susan Abulhawa su The Indu, tradotto da Internazionale


Postiamo da Internazionale n. 1058 del 4 luglio 2014 

Il valore dei figli, di  Susan Abulhawa, The Hindu, India

I corpi dei tre giovani israeliani scomparsi il 12 giugno sono stati ritrovati in una fossa scavata frettolosamente ad Halhul, a nord diHebron. Da quando Naftali Fraenkel, Gilad Shaar ed Eyal Yifrah sono scomparsi da Gush Etzion, una colonia ebraica in Cisgiordania,Israele ha messo sotto assedio quattro milioni di palestinesi facendo irruzione nei villaggi, perquisendo case e uffici pubblici, lanciando raid notturni, ferendo e uccidendo. La Striscia di Gaza è stata ripetutamente bombardata da aerei da guerra. Finora sono stati arrestati più di 422 palestinesi, tra cui Samer Issawi, l’uomo che aveva condotto uno sciopero della fame di 266 giorni per protestare contro un precedente arresto arbitrario. Almeno sei palestinesi sono stati uccisi e centinaia feriti.

Le università e gli uffici dell’assistenza sociale sono stati perquisiti e costretti a chiudere, i computer e tutte le apparecchiature sono stati distrutti o rubati, documenti pubblici e privati sono stati confiscati. Questi crimini sono la politica ufficiale dello stato israeliano messa in atto dai suoi militari, e si aggiungono alle violenze contro le persone e le proprietà commesse dai coloni, che nelle ultime settimane hanno intensificato gli attacchi contro i palestinesi. Dopo la conferma della morte dei tre giovani, il 30 giugno, Israele ha giurato vendetta. Il ministro dell’economia Naftali Bennett ha dichiarato: “Non c’è pietà per chi ha ucciso dei ragazzi. È il momento dell’azione,non delle parole”.
Anche se nessuna fazione palestinese ha rivendicato il rapimento – e quasi tutte, compresa Hamas, hanno negato il loro coinvolgimento –il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu è convinto che Hamas sia responsabile. Le sue accuse però sono state accolte consospetto, soprattutto dopo che Netanyahu ha espresso pubblicamente lasua rabbia per il riavvicinamento tra i partiti Al Fatah e Hamas, e per l’accoglienza positiva che questo accordo ha ricevuto dall’amministrazione Obama.

UN’ONDATA DI CONDANNE

I titoli della stampa occidentale sui tre ragazzi rapiti hanno sempre parlato di “caccia all’uomo” e di “operazione dell’esercito”. Le storie di quei giovani innocenti sono apparse su tutti i mezzi d’informazione e le parole dei loro genitori sono state riportate con tutto il loro carico di angoscia.
Gli Stati Uniti, l’Unione europea, l’Onu, il Regno Unito, il Canada e il Comitato internazionale della Croce rossa hanno condannato il rapimento e chiesto il rilascio immediato e incondizionato dei ragazzi.
Il ritrovamento dei cadaveri ha suscitato un’ondata di proteste e condoglianze. Il presidente statunitense Barack Obama ha dichiarato: “Come padre,posso immaginare l’indescrivibile dolore dei genitori di quegli adolescenti. Gli Stati Uniti condannano fermamente questo insensato atto di terrorismo contro tre giovani innocenti”.
Raramente il mondo reagisce in questo modo quando muoiono dei ragazzi palestinesi. Poco prima della scomparsa dei tre israeliani, l’omicidio di due adolescenti palestinesi era stato ripreso da una telecamera. Una serie di prove – tra cui le pallottole usate e un video girato dalla Cnn del momento in cui un cecchino premeva il grilletto e uno dei ragazzi cadeva a terra – ha dimostrato che sonostati uccisi a sangue freddo dai soldati israeliani. Ma i leader mondiali e le istituzioni internazionali non hanno lanciato condanne né chiesto giustizia per quei ragazzi.
Nessuno sa ancora con certezza chi abbia ucciso i tre israeliani. Ma questo non importa, perché in Israele sembra che tutti chiedano il sangue dei palestinesi. E non importa che i tre ragazzi studiassero in un insediamento illegale, costruito sui terreni rubati ai palestinesi del villaggio di Al Khader. Una buona parte dei coloniche vivono in quell’insediamento è composta da statunitensi, molti dei quali provenienti da New York, come uno dei ragazzi uccisi. Queste persone hanno il privilegio di mantenere la doppia cittadinanza, di avere una casa nel loro paese e una in Palestina,mentre i palestinesi vivono nei campi profughi, nei ghetti delle città occupate o in esilio.
Quasi ogni giorno i ragazzi palestinesi vengono aggrediti o uccisi, ma i mezzi d’informazione occidentali raramente ne parlano. Le madri palestinesi sono spesso accusate di averli mandati a morire odi non averli tenuti in casa lontano dai cecchini israeliani. Ma nessuno ha puntato il dito contro Rachel Fraenkel, la madre di uno dei tre giovani rapiti. Nessuno le ha chiesto perché ha deciso di trasferirsi in Cisgiordania dagli Stati Uniti per vivere in una colonia isolata costruita su un terreno confiscato. Nessuno la accusa di aver messo in pericolo la vita di suo figlio.
Nessuna madre dovrebbe veder morire suo figlio. Nessuna madre e nessun padre. Ma questo non vale solo per i genitori ebrei. La vita dei figli dei palestinesi non è meno preziosa e la loro perdita non è meno devastante. Eppure c’è una terribile disparità tra il valore che viene attribuito alle vite degli uni e degli altri.
In Israele gli ebrei sono favoriti per quanto riguarda i posti di lavoro, le opportunità di studiare e l’acquisto e l’affitto delle case. Inoltre non devono sottostare alle innumerevoli ordinanze dell’esercito che impongono limiti agli spostamenti, all’uso dell’acqua, all’accesso ai generi alimentari, all’istruzione,alle possibilità di matrimonio e all’indipendenza economica.

SEMPRE UNA RISPOSTA
Le violenze commesse dagli israeliani nelle ultime settimane sono generalmente accettate. Anzi, tutti se le aspettano. Il terrore che l’esercito israeliano scatena contro i palestinesi è, come sempre succede, ammantato della legittimità delle uniformi e delle armi tecnologicamente avanzate.
Per i mezzi d’informazione di tutto il mondo la violenza israeliana è sempre una “risposta”, come se invece la resistenza palestinese non fosse una risposta all’oppressione israeliana.
Quando i figli dei palestinesi lanciano sassi contro i carri armati e le jeep israeliane che silano nelle strade, quando vengono uccisi dai soldati o dai coloni, ci si aspetta che i loro genitori si assumano la responsabilità della loro morte. Quando i palestinesi si rifiutano di arrendersi, sono accusati di essere dei cattivi “partner di pace”, che meritano di perdere le loro terre, affidate in uso esclusivo ai coloni ebrei. Quando prendono le armi, sono terroristi della peggior specie. Quando protestano pacificamente, sono dei rivoltosi a cui bisogna sparare.Quando discutono, scrivono e boicottano il sistema, sono antisemiti da mettere a tacere, espellere, emarginare o processare.
Ma questo non sembra avere importanza. Conta solo che siano stati uccisi tre adolescenti israeliani. Non importa chi è stato e in quali circostanze, e i palestinesi dovranno soffrire per questo più di quanto non abbiano fatto finora.

Susan Abulhawa è una scrittrice d’origine palestinese che vive negli Stati Uniti.
In Italia ha pubblicato Ogni mattina a Jenin (Feltrinelli 2011).

mercoledì 2 aprile 2014

Centro Falastin - Torino - 8 aprile h. 21.00


Riceviamo e pubblichiamo:

"... Martedì prossimo 8 aprile viene un compagno scrittore e giornalista palestinese che è un sopravvissuto al massacro di sabra e chatila, si chiama nidal hamad ed era un giovane fedayn del campo. fu ferito e si diede per morto e così si salvò. poi fu portato insieme ad altri a curarsi in italia ma ha perso una gamba.  vive da molti anni in norvegia. un suo libro, l'alba degli uccelli liberi. è stato tradotto in italiano e viene a presentarlo. sotto la locandina."




giovedì 27 febbraio 2014

Presidio di Venaus - questa sera h. 18.30 e 21.00

Presentazione del libro 
"Perchè amo questo popolo - Storie di resistenza palestinese da Gaza

Ne parleremo con l'autrice del libro Silvia, di ritorno dalla Striscia di Gaza,
con la presenza di Fabio, attivista detenuto in un CIE israeliano che ha da poco
subito il rimpatrio forzato dalla Cisgiordania.


"Volevo anche che di questa gente uscisse l'umanità, oltre che il lato politico:

volevo che chi leggeva potesse sentire persone vicine. (...) Perchè

sono convinta che, da tutti questi chilometri di distanza, il popolo palestinese
ha ancora molto da insegnarci..."