SOLIDARIETA' CONCRETA

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sabato 17 maggio 2014

Mauro Baldrati su Carmillaonline 4




di Mauro Baldrati
Kahlo2[Riassunto delle puntate precedenti 1 2 3: Rick e Max, giovani attivisti del movimento No Tav, sono stati condannati a trent’anni di carcere per avere bruciato un compressore d’aria durante una manifestazione. Evasi dal penitenziario, stavano cercando di raggiungere la Slovenia, dove speravano di trovare aiuto e protezione, quando sono stati catturati dai militanti del Partito Democratico, condotti in un carcere privato della Lega Coop, sottoposti a tortura e condannati ai lavori forzati a vita.]
Cinque anni. Cinque anni di lavoro in un’azienda della F.I.G.A. di Semoletti (Federazione Italiana Gastronomi Agricoltori) li avevano fatti uscire dalla realtà.
Ma era realtà?
Sembrava un viaggio nel tempo: la campagna aveva vaste zone incolte, e molti contadini si spostavano con carretti trainati da muli, o cavalli. Accanto alle case coloniche erano sorte capanne di legno coi tetti di paglia, e non era raro vedere qualcuno che arava coi buoi.
Qua e là, appesi agli alberi, penzolavano gli impiccati, divorati dai corvi e dalle cornacchie.
Rick e Max erano riusciti a fuggire dal campo di lavoro. Si trovavano in Calabria, tra le colline, in prossimità di Lagonegro, in un campo di papaveri da oppio. Questa infatti era una coltivazione sulla quale Semoletti stava investendo ingenti capitali.L’oppio veniva venduto ai laboratori di raffinazione sudamericani (trasportato con gli aerei del Ministero dell’Agricoltura) che lo trasformavano in eroina pura. Tutto regolare, il quarto governo Superbone aveva concesso alla F.I.G.A. l’appalto della coltivazione intensiva per “scopi scientifici”.
Ma c’erano dei problemi. La penetrazione di Semoletti in Calabria, terra particolarmente adatta a quel tipo di coltivazione, non era andata liscia come in Puglia. La Ndrangheta era un’organizzazione internazionale, molto potente. I boss non avevano accettato la sottomissione alla F.I.G.A. di Semoletti, come i loro colleghi pugliesi della Sacra Corona Unita. Quindi era nata una guerra, che il Primo Ministro Superbone non era riuscito a scongiurare, nonostante una sorta di invasione degli squadroni della morte montiani coadiuvati da truppe speciali dalemiane. Il giorno dell’evasione c’era stato un attacco della ndrangheta con mezzi blindati e bombe a mano. Era nato un violento scontro a fuoco che aveva permesso la fuga di numerosi schiavi. Molti erano stati catturati, o uccisi, ma Rick e Max avevano pianificato con cura la migrazione verso la Francia: camminavano solo di notte, restando nascosti di giorno, in grotte, boschi, case diroccate. La stagione estiva era favorevole.
Avevano risalito la penisola mangiando quello che trovavano, rubando dai frutteti, dagli orti, dai pollai, spesso soffrendo la fame per giorni, ma avanzando con una sorta di tenacia disperata, perché non c’erano dubbi sull’esito di una nuova cattura: li aspettava la garrota, la forma di esecuzione introdotta dal Partito Democratico per giustiziare i terroristi.
Dopo molte notti di marcia erano arrivati in Lombardia, nei pressi di Lodi. Avevano in programma una sosta a Milano, dove era attiva una cellula clandestina della Resistenza. L’aveva rivelato loro uno schiavo appena arrivato in Calabria, prima di essere ucciso a frustate dai guardiani dalemiani perché si rifiutava di lavorare.
Stava per albeggiare. Occorreva fermarsi. Anche perché erano stremati. Rick aveva certamente la febbre. Avevano mangiato avanzi andati a male, trovati in un cassonetto di rifiuti in prossimità di un supermercato Coop. Erano nascosti in un cespuglio ai bordi dell’aia di una fattoria. La casa colonica, grande, malandata, aveva i muri segnati dalla muffa e dall’umidità. Di fianco era stata costruita una capanna, rudimentale, con materiali di recupero, assi, lastre di plastica, un pezzo di cartellone pubblicitario.
“Entriamo lì dentro” disse Max. “Magari troviamo qualcosa, cibo, acqua, vestiti. Forse possiamo restare nascosti fino a questa notte.”
Avevano strisciato sull’aia, fino alla porticina sgangherata della capanna, che avevano aperto senza difficoltà. Era un deposito di vecchi attrezzi, con un soppalco carico di pannocchie di mais messe a seccare. Erano riusciti a mangiarne una a testa, masticando a lungo i chicchi per renderli una poltiglia che i loro stomaci infiammati avrebbero digerito senza danni.
Mentre stavano cercando un riparo dietro uno scaffale crivellato dai tarli la porta si spalancò. La luce già accecante del sole irruppe nell’ambiente polveroso, sagomando in controluce la forma minacciosa di un uomo che imbracciava una doppietta.
“Chi siete? Che volete?” disse. Sembrava anziano, con la schiena curva, i capelli bianchi, la barba non rasata.
Rick e Max alzarono le mani. “Per favore. Volevamo solo dormire un po’. Siamo viaggiatori, in cerca di lavoro.”
“Viaggiatori, eh?” disse l’uomo. Non c’era sarcasmo nella sua voce. Sembrava stanco, come rassegnato. Fece un passo, entrò nella capanna. Continuava a fissarli, senza parlare. “Voi siete i due terroristi evasi, altro che viaggiatori.” Rick e Max non fiatarono. Pensieri vorticosi si incendiavano nelle loro menti. Era finita? Era la morte definitiva della speranza? Potevano aggredirlo, disarmarlo? Ma poi che fare con gli altri occupanti della casa? “Lo so chi siete” disse l’uomo, dopo una lunga pausa. “La televisione ha parlato molto di voi. Quelli” soggiunse, indicando l’esterno, “vi cercano come dei matti. Siete pericolosi, dicono. Pericolosi per loro. Beh, sapete cosa vi dico? Vi aiuterò. Perché i loronemici sono miei amici”
L’interno della casa era pulito, ordinato, benché fosse evidente la povertà. Sul fuoco del camino stava iniziando a bollire un paiolo. Una donna vestita di nero rimestava con un mestolo di legno. Non c’era una cucina moderna, ma un vecchio lavello di ceramica annerita, con un rubinetto del tipo industriale. Niente acqua calda, e il gas era staccato.
“Colpa delle bollette non pagate” disse la donna, la moglie dell’uomo. “E chi può pagarle? Il governo ha rincarato le tariffe fino a renderle inaccessibili. Non abbiamo neanche la luce, a parte un piccolo generatore, appena sufficiente per la televisione”.
Rick e Max infatti erano rimasti stupiti per la presenza di un televisore moderno, che strideva palesemente in quel contesto neo-arcaico.
“Tutti devono avere un televisore” disse l’uomo. “Anche chi non può permettersi il pane. Il governo li distribuisce gratuitamente, col generatore, perché i cittadini, dicono, devono essere informati. Vale a dire devono sorbirsi le prediche e le balle quotidiane di quei maledetti bastardi figli di puttana maiali ladri assassini…”
kahlo_il_piccolo_cervoLa donna lo interruppe prendendogli una mano. “Basta Arturo, ti prego. Non serve a nulla arrabbiarsi così. Ti fai solo del male. Ti rovini il cuore, e il cervello. E fai del male anche a me.”
L’uomo, che era diventato paonazzo, sembrò calmarsi. “Hai ragione, Rosa. Tanto quelli continuano a prosperare, mentre noi moriamo di fame.” Rick e Max addentarono un pezzo di pane, sul quale avevano spalmato un sottile strato di lardo tenero come il burro. “Si prendono tutto. A noi resta appena il necessario per non crepare. Gli esattori del partito arrivano tre volte all’anno e dobbiamo consegnare loro il raccolto, gli insaccati del maiale, il latte, tutto. E guai a nascondere qualcosa. Se ci scoprono veniamo frustati a sangue. Oppure uccisi sul posto, dipende dalla gravità del reato.”
La donna sospirò. Poi allungò una mano e appoggiò un palmo sulla fronte di Rick.
“Questo ragazzo ha la febbre” disse. “Dobbiamo portarlo dalla Stellina.”
“La Stellina?” disse Max.
“Sì, è una vecchia signora che cura noi contadini con le erbe” disse.
L’uomo ebbe uno scatto, come se volesse prendere a pugni l’aria. La donna, ancora una volta, lo calmò. “Voi ragazzi siete stati fuori dal mondo per cinque anni, giusto?” Rick e Max annuirono. “Scommetto che nel vostro campo di lavoro c’era la televisione. Perché c’èsempre la televisione.” Rick e Max annuirono di nuovo. “Scommetto che non facevano che ripetere che va tutto bene, benissimo, no? Che il governo lavora per risolvere i problemi del paese, giusto?” Rick e Max confermarono. La televisione, che era sempre accesa, non parlava d’altro. Avevano visto spesso anche il sosia di Riccardo Schicchi che predicava. “Beh, non esiste più niente” disse l’uomo. “Il paese non esiste più. La sanità è stata completamente privatizzata e affidata all’Unipol, che gestisce le cliniche private. Noi ne siamo esclusi. Come le pensioni del resto. Non possiamo pagare le quote. E’ tutto riservato a loro, i dirigenti del partito, i militanti, e i padroni.”
La donna sospirò di nuovo, col capo chino. “Però la Stellina è bravissima, trova sempre la cura, per tutti.”
In quel momento, con uno schianto, la porta si spalancò. Due uomini si affacciarono sulla soglia. Sembravano incerti, barcollanti. Impugnavano mazze da baseball.
“Allora, bifolco, dov’è lei?” disse uno. La voce era rauca, la lingua impastata. Erano sbronzi. Un forte odore di alcol si stava diffondendo nella stanza. “Eh, lurido contadino? Eh, miserabile morto di fame? Dov’è la tua bella figlioletta? Dove la nascondi?”
L’uomo si alzò, andò di fronte ai due uomini e si inginocchiò. “Vi prego, ragazzi, vi scongiuro. Ha solo quattordici anni. Lasciateci in pace.”
I due sghignazzarono. “Appunto, pezzente! Quattordici anni, una bella prugna ancora acerba! Tirala fuori, se non vuoi che bruciamo questa topaia!”
Rick e Max li osservarono attentamente: giovani, capelli scuri, facce ghignanti: renziani, senza ombra di dubbio. E quindi con l’istinto compulsivo dello stupro.
D’un tratto i due si accorsero di loro, pur tra i fumi della sbronza, e iniziarono a fissarli.
“Ehi, chi sono questi due stronzetti?”
“Ma io li ho già visti” soggiunse l’altro. “Sì, sono… sono…”
Rick e Max scattarono. Benché indeboliti dalla lunga marcia, e dalla denutrizione, avevano muscoli solidi, formati e consolidati dal duro lavoro nel campo. In un attimo furono addosso ai due renziani, i quali, ubriachi com’erano, non furono in grado di opporre resistenza. Max strappò la mazza al primo, che usò per colpirlo ripetutamente alla testa, sfondandogli il cranio, Rick trascinò l’altro sul pavimento, dove lo strangolò senza sforzo.
Si rialzarono, guardarono i due cadaveri, ansimando.
L’uomo era ancora in ginocchio, esterrefatto. La donna piangeva con la faccia tra le mani.
Il tempo sembrava fermo, la scena era immobile.
“E ora?” disse l’uomo, rialzandosi. Li avete uccisi. Per noi è finita. Saremo sterminati.”
Max andò verso la porta di ingresso, guardò fuori.
“Dovevamo farlo” disse Rick. “Vi avrebbero accusati di dare ospitalità a due terroristi, vi avrebbero uccisi tutti.”
“Lì fuori c’è la loro auto” disse Max. “Vado a nasconderla dietro la casa. Non si vede nessun altro in giro.” E uscì.
“Erano soli” disse Rick. “Secondo me andrà tutto bene. Dobbiamo solo seppellire i cadaveri. L’auto la porteremo lontano da qui, e la bruceremo. Non potranno risalire fino a voi.”
Si udì il motore accendersi, in cortile. Dopo qualche minuto Max rientrò.
“Seppellire i cadaveri?” disse l’uomo, con voce cupa. “Non è così semplice. Dobbiamo scavare una buca profonda, con le pale. Non abbiamo più le macchine, siamo stati costrette a venderle. Qualcuno potrebbe notarci. Gli esattori del partito sono sempre in giro, controllano, sorvegliano. E ogni giorno passa un elicottero.”
Tutti tacquero, per lunghissimi, interminabili minuti. Ognuno era immerso nei propri pensieri. Ed erano pensieri oscuri. Rick e Max si sentivano in colpa per ciò che avevano causato a quella famiglia. L’uomo e la donna erano travolti dall’angoscia.
Fu la donna, che uscì dalla sua disperazione, a proporre una soluzione.
Kahlo-Busto-in-gesso“Tagliamoli a pezzi. In tanti pezzi. Possiamo disperderli qua e là, seppellirli in piccole buche. Giù in cantina abbiamo tutto pronto per la macellazione del maiale, tra un mese.”
L’uomo annuì, mentre sembrava riflettere intensamente. “La macellazione, certo…” guardò verso la porta che conduceva in cantina. “Hai avuto una buona idea, Marta… ma possiamo… migliorarla. Possiamo addirittura ricavarne un utile.”
“Che vuoi dire?” chiese la donna.
“Sì… farò delle salsicce, dei cotechini, e dei prosciutti che sembreranno culatelli. Nessuno se ne accorgerà. E quando arriveranno gli esattori li daremo a loro, mentre per noi terremo quelli di maiale, che nasconderemo. Così… così…”
Si scambiarono occhiate, guardarono i cadaveri, tornarono a fissarsi, meditabondi.
“Così… quei cani rabbiosi si mangeranno tra loro!” conchiuse l’uomo. Poi guardò la donna, guardò Rick e Max, chinò il capo e disse: “Pensate cosa mi tocca fare, io, che prima dell’avvento di questo regime di belve ero vegetariano!”
E in quel momento tragico, coi due cadaveri scomposti sul pavimento, con una minaccia mortale che incombeva sulla casa come una creatura mostruosa, coi cuori oppressi dall’ansia e dall’incertezza del futuro, con quell’energia particolare, unica nel variegato mondo delle creature viventi che abitavano il pianeta Terra, quell’energia che porta l’uomo a staccarsi dalle situazioni, a rompere la spirale naturale di causa-effetto, di aggressione-fuga, incurante della tragedia che lo sfiora con le sue ali nere, i quattro personaggi che in quel momento abitavano la povera casa, ignorando tutte le incognite che sembravano vaporizzare il concetto stesso di realtà, scoppiarono in una lunga, torrenziale, liberatoria risata.
[Le vicende qui narrate sono finzioni letterarie. In esse compaiono nomi e circostanze reali in qualità di pure occasioni narrative. I nomi di personaggi e di enti del mondo della politica e dell’economia vengono usati soltanto ai fini di denotare figure, immagini e sostanze dei sogni collettivi che sono stati formulati intorno ad essi, e si riferiscono quindi a un ambito mitologico che non ha nulla a che vedere con informazioni o opinioni circa la verità storica effettiva degli avvenimenti o delle persone su cui questo racconto elabora una pura fantasia]
Le immagini sono di Frida Kahlo
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venerdì 16 maggio 2014

Mauro Baldrati su Carmillaonline 3




george_grosz_023_interrogatdi Mauro Baldrati
Riassunto delle puntate precedenti 1 e 2: Rick e Max, giovani attivisti del movimento No Tav, sono stati condannati a trent’anni di carcere per avere bruciato un compressore d’aria durante una manifestazione. Evasi dal penitenziario, stavano cercando di raggiungere la Slovenia, dove speravano di trovare aiuto e protezione, quando sono stati catturati dai militanti del Partito Democratico, condotti in un carcere privato della Lega Coop, e sottoposti a tortura.
Rick cercò di massaggiare l’articolazione della spalla slogata. In certi momenti il dolore diventava insopportabile. L’altra articolazione era miracolosamente rimasta intatta dopo ripetute applicazioni della tortura della corda, una pratica che risaliva all’Inquisizione. Erano procedure superate, gli specialisti dalemiani usavano i farmaci, come tutti, ma “due sporchi terroristi NO TAV” non meritavano neanche la spesa di un’aspirina.
Max aveva due dita fratturate e una ferita, causata da un chiodo conficcato nella mano destra, che si era infettata. Gemevano, ormai ridotti a ombre, spettri tra altri spettri, nella sala buia e quasi priva di ossigeno del carcere privato della Legacoop.
Non avevano rivelato nulla, nonostante i ripetuti interrogatori. D’altra parte cosa avrebbero potuto rivelare? I loro compagni del movimento erano stati quasi tutti arrestati. In quanto al “covo” sloveno, che sembrava interessare molto i dirigenti del Partito Democratico preposti alla repressione dei NO TAV , non avevano informazioni precise, a parte l’indirizzo di un bar dove “forse” avrebbero potuto incontrare qualcuno. Ovviamente i dalemiani non credevano una parola, e avevano continuato a torturarli fin quasi a ridurli in fin di vita.
“Ed ora?” chiese Rick. “Cosa succederà?”
Max non rispose. La debolezza, la disidratazione lo privavano di ogni energia.
“Ora vi processeranno” disse l’uomo barbuto che ormai impersonava il cicerone degli orrori. “Sarete condannati alla forca, o al plotone di esecuzione, o alla galera a vita. Dipende dal giudice. E’ discrezionale.”
Rick sospirò. Tutto era discrezionale, dopo che il terzo governo Superbone aveva privatizzato la giustizia, affidandola ai tribunali privati del Partito Democratico, e tutto il sistema di detenzione e pena, appaltandolo alle aziende della Legacoop.
Forse era mattina, forse era notte – la concezione del tempo era saltata nella stanza buia, senza finestre – quando la porta si spalancò e quattro energumeni dalemiani irruppero nella cella. Frugarono con le torce elettriche tra i presenti, allontanarono a calci i soliti disperati che invocavano acqua, finché individuarono Rick e Max, accasciati sul pavimento. Max fu trascinato fuori per i capelli, Rick per i piedi. In corridoio, imprecando, furono costretti a trasportarli con una barella, vista l’impossibilità di camminare.
Max si sentì afferrare per i polsi e per le caviglie, poi la testa gli girò e lo stomaco si rivoltò, perché ondeggiava in orizzontale, mentre i guardiani gridavano “oh-ohh-ho!”, e lo lanciavano in una camera, dove atterrò con violenza sul pavimento, sbattendo la testa e perdendo i sensi. Un colpo altrettanto violento lo fece per un attimo rinvenire: il corpo di Rick che precipitava su di lui.
Quando riaprì gli occhi, forse per gli schiaffi che qualcuno gli sferrava, forse per l’acqua che gli veniva versata sulla faccia, vide varie persone intorno a lui. Numerosi occhi scuri lo fissavano. Volti giovani, ghignanti. Qualche donna, giovane e carina, lo indicava con un dito e ridacchiava.
Renziani.
Non c’erano dubbi.
Erano caduti in mano ai renziani.
Ora non esistevano più alternative.
Allo stupro selvaggio.
“Ma come sono messi questi qua?” disse una voce. Chi aveva parlato sedeva indolente su una poltrona rossa, con una coperta sulle gambe. Era un tipo scuro di capelli, dalla fisionomia inconfondibile: il deputato sosia di Riccardo Schicchi, lo stupratore ufficiale del Partito Democratico, colui che rivendicava lo ius primae noctis. Sì, era davvero finita. L’ultimo atto. “Non vedete che sono coperti di merda e di pidocchi?” Risatine e squittìì tra i renziani. “Andate subito a lavarli. E disinfettateli. E fategli anche un’iniezione di metamfetamina, sono morti in piedi!”
george-grosz-hintergrund-p7I vestiti, fradici e puzzolenti, vennero tagliati con le forbici. Poi Rick e Max furono posti di fronte a un muro rivestito di piastrelle, e un guardiano li irrorò con un idrante. La pressione era elevata, e l’acqua quasi bollente, oltre che odorosa di disinfettante.
In condizioni normali sarebbero stramazzati al suolo, ma l’anfe correva furiosa nelle loro arterie, lanciava staffilate lungo la schiena, scariche nello stomaco, e li teneva in piedi con la sua forza bruta.
Nudi, gocciolanti, tremanti, vennero condotti per corridoi rivestiti di moquette, tra i lazzi, le risate e gli insulti di chi li incrociava. Qualcuno li spintonò, altri li colpirono con calci o scapaccioni. Ci fu chi sputò loro in faccia.
Di nuovo nella camera, di nuovo di fronte al sosia di Riccardo Schicchi, che era sempre seduto mollemente sulla poltrona.
“Inchinatevi di fronte all’onorevole presidente!” urlò uno dei giovanotti renziani. Un colpo dietro le gambe, sferrato con una mazza, li fece stramazzare in ginocchio.
Nessuno si mosse. Nessuno parlò.
Tutti aspettavano.
Soprattutto non parlava, né si muoveva, il sosia di Riccardo Schicchi.
“Sono due cadaveri” disse infine, con voce piatta. “Mi fa schifo farmi succhiare l’uccello da due zombies. Dategli qualcosa da mangiare, e da bere. Che prendano un po’ di colore.”
Mani li afferrarono, li trascinarono. Con calci, sberle e pizzicotti li costrinsero a mettersi a quattro zampe, poi vennero poste loro di fronte due ciotole a testa: una conteneva una poltiglia di un colore marrone scuro, l’altra acqua.
“Mangiate, cuccioli bastardi!”
Max iniziò a ingoiare la poltiglia. Era cibo per cani, spezzatino, polpette. Squisito. Saporito, tenero. Non mangiavano qualcosa di solido da settimane. Li avevano nutriti con una specie di brodo andato a male, dove i guardiani dalemiani orinavano.
Bere era più complicato. Come appartenenti alla specie umana non disponevano di una lingua sovradimensionata come i canidi, per cui dovevano succhiare, mentre i renziani li molestavano di continuo con pizzicotti e sculacciate.
Mangiare e bere li rinfrancò, e diede nuovo impulso alla forza motrice dell’anfe, che ruggiva nelle vene e negli organi interni.
Nuovamente in ginocchio davanti al sosia di Riccardo Schicchi.
In attesa.
Dell’inevitabile.
Il sosia di Riccardo Schicchi, con un gesto brusco, gettò via lo coperta. Sotto era nudo. Un pene di ragguardevoli dimensioni, già eretto, sembrava volersi protendere verso di loro.
“E ora” disse, con uno dei suoi ghigni linguacciuti, “datevi da fare, miei piccoli, adorabili, disgustosi maialini.”
george-grosz-hintergrund-p2Fecero loro indossare una specie di djellabah, una tunica bianca larga, svolazzante, pulita e ruvida. Così abbigliati, a piedi nudi, percorsero per l’ennesima volta lunghi corridoi, fino a una doppia porta di legno chiaro, spalancata, al di là della quale si intravedeva un tavolo di legno scuro.
Vennero condotti in un spazio recintato da sbarre di legno, alte circa un metro. Non c’erano sedie, per cui restarono in piedi.
Ancora confusi, anche per la metamfetamina che, in fase calante, confondeva loro i sensi, lanciarono occhiate in tutte le direzioni, occhiate voraci, forse disperate, per cercare di capire, o per avere conferme: alla loro destra, dietro a un tavolo piccolo, sedevano due persone, un uomo e una donna. Un altro uomo dall’aria indefinibile, con la testa bassa, sedeva a sinistra. Altri erano i piedi, addossati ai muri. E di fronte, dietro al tavolo di legno scuro, sedeva un tipo coi capelli grigi, una barbetta curata, un ciuffo ribelle da intellettuale sulla fronte.
Max lo riconobbe subito: era uno dei ministri plenipotenziari di Superbone, che si dilettava a presiedere i tribunali.
Perché quello era un tribunale.
Dunque li stavano processando.
E quel giudice, di cui non ricordava il nome, era famoso per la sua mancanza di pietà. Tutti ne parlavano. Non era cattivo, cioè non era dotato del sadismo naturale dei dalemiani, o dell’arroganza e della crudeltà adolescenziali dei renziani; semplicemente era del tutto privo di compassione umana.
“Apriamo il procedimento contro Ricciardi Massimo e Robecchi Riccardo” disse il giudice, fissandoli. I suoi occhi erano freddi, calcolatori. “Siete accusati di terrorismo, sabotaggio, devastazioni, attentato dinamitardo, resistenza a pubblico ufficiale, nonché dell’evasione violenta dal penitenziario di Piacenza.”
Violenta? Ma che stava dicendo, pensò Max. Semplicemente un secondino aveva dimenticato la porta aperta.
“La parola all’accusa” disse il giudice, indicando l’uomo e la donna seduti sulla destra.
Si alzò l’uomo, che si portò di fronte al tavolo.
“I due terroristi qui presenti sono tristemente famosi per le loro reiterate azioni di sabotaggio, nel corso delle quali ci sono stati numerosi feriti, oltre che danni molto gravi ad attrezzature tecniche, macchinari, utensili. Quando sono evasi dal penitenziario un agente di custodia, da loro aggredito, è rimasto gravemente ferito e rischia l’invalidità permanente.”
L’avvocato dell’accusa stava per continuare, ma il giudice alzò una mano. “Basta così, avvocato, grazie. Ho letto i rapporti. Ora voglio sentire la difesa. Prego, avvocato.”
Si alzò l’uomo che si trovava a sinistra. Aveva un’aria dimessa, un’espressione infelice sul volto pallido. Le spalle, gracili, erano spioventi, forse per l’abitudine di tenere la schiena curva. La corporatura, i modi, l’età, l’energia compressa, la postura depressiva lo qualificavano senza alcun dubbio come un fassina-civatiano.
“Signor giudice” esordì con voce bassa, poco più che un sussurro, “io… non sarei d’accordo con certi sistemi. Secondo me… dovremmo garantire qualche garanzia in più… ecco, agli accusati…”
Il giudice ebbe un moto di fastidio che fece immediatamente tacere l’avvocato della difesa.
Secondo me” disse, con voce tagliente, facendogli il verso. Fissò Rick e Max, fissò l’avvocato. I suoi occhi bruciavano di gelido disprezzo. “Sa cosa le dico avvocato? Secondo me lei deve piantarla di rompere i coglioni e fare il suo dovere! E’ chiaro?”
L’avvocato fassina-civatiano ascoltava immobile, con le braccia inerti lungo i fianchi.
“Dunque ha qualcosa di interessante da dire? Un’obiezione? Vuole pronunciare un’arringa?”
L’avvocato fassina-civatiano non alzò il capo. Parlò rivolto al pavimento. “No signor giudice. La difesa non ha nulla da aggiungere.”
“Oh. Questo si chiama parlare. Bene, torni al suo posto allora.”
L’avvocato, come un automa, raggiunse il suo tavolo, dove restò immobile, col capo chino, le mani giunte.
Il giudice tornò a fissare Rick e Max. I gelidi occhi grigi erano rasoi di ghiaccio che li tagliavano a fette.
“Ricciardi e Robecchi” disse, dopo una lunga, minacciosa pausa. “Col vostro agire avete creato gravissimi danni alla crescita e al progresso di questo paese. La vostra filosofia è solo distruttiva, i vostri cosiddetti ideali confusi e negativi. Il vostro egoismo è criminale. Voi non siete nulla, non rappresentate nessuno, a parte il vostro rancore, la vostra violenza e il vostro isolamento. Per cui, sentiti i rappresentanti dell’accusa e della difesa, ed esaminati gli atti, questa corte vi giudica colpevoli di terrorismo, con l’aggravante dell’odio sociale. La pena adeguata ai criminali sociali come voi sarebbe il plotone di esecuzione, ma il nostro Presidente del Consiglio, nella sua lungimiranza, ci sta chiedendo di essere magnanimi, comprensivi a generosi. Pertanto vi condanno all’ergastolo, da scontare ai lavori forzati, senza sconti di pena né concessione di permessi, presso le aziende della filiera agro-alimentare Figa. I vostri guadagni saranno interamente confiscati, per ripagare almeno in parte i danni che avete provocato al vostro paese. La seduta è tolta.”
E sferrò un colpo sul tavolo con un martelletto, proprio come nei film.
George-Grosz“Magnanimi un corno” disse Rick, senza smettere di fissare il soffitto della cella. “Il fatto è che Semoletti ha bisogno di nuovi schiavi.”
“Semoletti, eh?” disse Max, che era steso sulla branda a castello sottostante. Dalla sua posizione vedeva la finestra con le sbarre. La cella era piccola, ma pulita. Erano in attesa del trasferimento al campo di lavoro, li avevano ripuliti, curati, nutriti. Semoletti li voleva in forze, i lavoranti.
L’imprenditore miliardario del Partito Democratico, uno dei grandi spin-docktor di Superbone, era continuamente in espansione con la sua Figa (Federazione Italiana Grastronomi Agricoltori. Il nome era dovuto al fatto – secondo l’idea di Semoletti, peraltro suffragata dai risultati di mercato – che i prodotti italiani all’estero con quel marchio avrebbero goduto di uno straordinario appeal). La manodopera scarseggiava. Superbone aveva dato disposizioni che gli venissero assegnati i detenuti, oltre ai pochi immigrati che ancora si azzardavano a mettere piede in Italia, dove venivano immediatamente catturati e ridotti in schiavitù. Era leggendaria la sua entrata in scena in Puglia, con lo scopo di impadronirsi di tutta la produzione agroalimentare. Suoi inviati si erano presentati dai boss della Sacra Corona Unita intimando loro di aderire alla Figa. A Semoletti interessava soprattutto la rete di capolarato, che garantiva ogni giorno centinaia di braccianti a basso costo, senza contratto. I boss scoppiarono a ridere. Erano loro i padroni, chi cazzo credeva di essere questo Semoletti?
Il problema era serio, e andava risolto in fretta. Una guerriglia con la mafia pugliese avrebbe avuto effetti deleteri sul governo “del fare”. Così il Premier Superbone ebbe un’idea geniale: affidò le operazioni a un gruppo di nuova formazione, di cui si iniziava molto a parlare: i mercenari montiani. Spietati, efficienti, erano considerati assolutamente affidabili.
A bordo di SUV corazzati, armati con fucili automatici e lanciarazzi anticarro RPG, prelevarono i boss dalle ville fortificate e li giustiziarono sul posto con un colpo alla nuca. Poi, secondo la tradizione antica, i famigliari, i parenti, gli amici presenti furono tutti massacrati, e le ville date alle fiamme. Immediatamente dopo i sopravvissuti, coi loro affiliati, divennero dei “collaboratori” della Figa.
I giorni seguenti Superbone si presentò agli italiani dal video del network dove, adulato e magnificato dai “giornalisti” televisivi, annunciò con enfasi e un numero incalcolabile di sorrisi che la mafia pugliese era definitivamente smantellata. Secondo i sondaggi il suo indice di popolarità passò dall’82.54 all’89,91%.
“Così ora siamo diventati schiavi di Semoletti” disse Rick, con la sua migliore aria fatalista.
“Poteva andare peggio” ribatté Max. “Potevano impiccarci, strangolarci con la garrota. Ce la faremo.”
“Ah, sì? Certo, lavorando dieci-dodici ore al giorno sette giorni su sette. Beh, almeno ci daranno da mangiare, giusto?”
Sarcarsmo nella sua voce. Max si alzò in piedi, costrinse anche l’amico a fare altrettanto.
Lo abbracciò, lo strinse forte.
“Ce la faremo ti dico. Fuggiremo. Siamo sempre fuggiti. Non riusciranno a tenerci.”
“E poi?” disse Rick, con la bocca premuta contro la sua spalla. “Dove andremo? Ci cattureranno di nuovo.”
“Non è detto. Abbiamo imparato molto, nel frattempo. Cammineremo di notte, niente passaggi, niente autostrada. Andremo in Francia. Si sta creando una resistenza, ce la faremo ti dico. Abbatteremo i mostri, distruggeremo i demoni.”
Rick respirava forte. Il suo corpo era scosso da una vibrazione, come una scarica elettrica.
Cercava di nascondere la testa. Cercava protezione.
Forse piangeva.
Oppure rideva.
(Fine?!?!)
(Le immagini sono di George Grosz)
[Le vicende qui narrate sono finzioni letterarie. In esse compaiono nomi e circostanze reali in qualità di pure occasioni narrative. I nomi di personaggi e di enti del mondo della politica e dell’economia vengono usati soltanto ai fini di denotare figure, immagini e sostanze dei sogni collettivi che sono stati formulati intorno ad essi, e si riferiscono quindi a un ambito mitologico che non ha nulla a che vedere con informazioni o opinioni circa la verità storica effettiva degli avvenimenti o delle persone su cui questo racconto elabora una pura fantasia]

giovedì 15 maggio 2014

Mauro Baldrati su Carmillaonline 2




di Mauro Baldrati
[Riassunto dell’episodio precedente. Rick e Max, due giovani militanti del movimento NO TAV, sono stati condannati a 30 anni di carcere per avere bruciato un compressore d’aria durante una manifestazione. Evasi miracolosamente dal penitenziario, per la disattenzione di un secondino, stavano cercando di raggiungere la Slovenia con mezzi di fortuna, dove speravano di trovare aiuto e protezione.]
legacoopIl furgone nero coi vetri oscurati procedeva sull’autostrada a velocità sostenuta. Rick e Max sedevano nella fila centrale, i polsi immobilizzati dalle manette di plastica. Tre uomini erano nella fila dietro, due donne e un uomo davanti. Nessuno parlava.
Beh, per la verità Max sussurrava, cercando di non attirare l’attenzione dei guardiani, che sembravano assenti, con lo sguardo perso nel vuoto.
“Hai visto Rick? Non ci hanno fatto il culo, come temevi.”
Rick storse la bocca. “Vero. E lo sai perché?”
“No che non lo so.”
“Questi non sono renziani. Se ci beccavano loro lo stupro era assicurato.”
Max lanciò un’altra occhiata ai trucidi personaggi che sembravano ignorarli. “Sei sicuro?”
“Certo” disse Rick. Stava alzando un po’ troppo la voce. “Sono cuperliani. Inconfondibili. Capelli biondicci, occhi chiari, atteggiamento glaciale, poche parole. Ma non illuderti. Sono efficienti, e feroci.”
“Silenzio!” ringhiò uno degli uomini seduti dietro. La voce era bassa, tagliente. Seguì un violento scapaccione che sembrò staccare la testa dal collo di Rick.
Li avevano catturati a bordo di un camion sloveno, che rientrava in patria. Sembrava un bel colpo di fortuna, li avrebbe condotti proprio a Ljubljana, dove contavano di trovare un riparo. Invece appena usciti dall’area di servizio il furgone nero, seguito da una berlina che sembrava corazzata , li aveva costretti a fermarsi. L’autista del camion era stato minacciato con un coltello alla gola, gettato a terra e massacrato a calci.
E loro erano tornati a essere dei prigionieri.
Disperatamente.
Il furgone entrò a Bologna a notte inoltrata. Rick e Max erano affamati, e disidratati, ma non era consigliabile chiedere acqua o cibo. Le facce di pietra dei guardiani non promettevano niente di buono.
Dopo una decina di minuti di guida nelle strade semideserte, lucide di pioggia, il furgone arrivò in una piazza della zona Fiera, dove si ergeva un palazzo di cemento e cristallo col simbolo Legacoop. La sede dell’associazione delle cooperative.
Lì c’erano i veri duri. Lì non si scherzava.
Max sentì una dolorosa contrazione al cuore.
Guardie armate con fucili calibro 12 li fissarono disgustati. Rick e Max furono fatti scendere e costretti, a spintoni e calci nel sedere, a varcare una doppia porta a vetri che immetteva in una sorta di reception rivestita di moquette grigia. Dietro al banco un grassone in abito nero e camicia bianca parlottò brevemente con uno dei guardiani. Poi annuì e si alzò rumorosamente dalla sedia, uscendo da dietro al banco. Si incamminarono lungo un corridoio rivestito dalla stessa moquette grigia, sempre spintonati rudemente. Arrivarono a una porta di metallo che si affacciava su una scala. Scesero sulle gambe deboli, malferme, per due rampe. Si fermarono in un pianerottolo angusto, che terminava contro una doppia porta di metallo, dall’aspetto robusto. Uno dei guardiani aprì la serratura elettronica digitando un codice. Il battente si spalancò su un androne buio, che vomitava caldo, umidità, lamenti umani e un odore soffocante di sudore, orina e feci.
“Dentro” sibilò il guardiano, con un cenno del capo.
Rick e Max esitarono. Quell’aria non sembrava respirabile.
“Per favore… solo un po’ d’acqua…” supplicò Max.
Un’espressione di furia assoluta stravolse all’improvviso la faccia del guardiano.
“Cosa?” gridò, con voce acuta. Poi afferrò Max per le spalle e lo scaraventò dentro con una pedata nel sedere. Lo stesso accade a Rick. Persero l’equilibrio, ruzzolarono su un pavimento umido, urtarono dei corpi seduti, o sdraiati. “Terroristi rottinculi, ve la do io l’acqua!” urlò il guardiano, mentre la porta si richiudeva sul buio pieno della galera.
All’interno una massa informe di corpi maschili e femminili, alcuni dei quali completamente nudi, sudati, incrostati di sporcizia, si contorcevano in una oscurità che sembrava solida, con un tasso di umidità che sfiorava il 100%. Si respirava a fatica.
“Muovetevi lentamente” disse una voce maschile, rauca. Qualcuno era seduto accanto a loro, con la schiena appoggiata al muro. “Consumerete meno ossigeno. Qui è molto scarso, come avrete capito. Si può impazzire. L’altro ieri una donna è morta, per un attacco cardiaco. L’hanno lasciata qui per tutta la notte.”
Una luce debolissima rischiarava l’ambiente. Quando gli occhi si abituarono Rick e Max scorsero una ventina di corpi accasciati sul pavimento. Occhi spiritati li fissavano. L’uomo che aveva parlato aveva un’età indefinibile, anche per la barba incolta e i capelli lunghi, arruffati.
“Chi siete?” chiese Max.
“Chi siamo? Posso dirti chi sono io. Mi hanno preso durante lo sgombero di un centro sociale occupato. Mi hanno accusato di terrorismo, perché c’era una mia foto a una manifestazione contro il precariato dove è stata lanciata una, dico una, molotov contro un blindato, che tra l’altro non ha neanche preso fuoco.”
“Chi ti ha arrestato? La polizia? E come mai ti hanno portato qua?”
L’uomo sembrò sorridere. Un’illusione ottica ovviamente. “La polizia? No. I centri sociali li sgomberano i militanti del Partito Democratico. Sono loro che vi interrogheranno. Preparatevi. Se ne occupano i dalemiani, le più crudeli, spietate e perverse creature esistenti su questo pianeta di merda.
La notte seguente Max fu prelevato e trascinato fuori dall’antro in cui tutti vegetavano in stato di semi-incoscienza. Nessuno aveva portato da bere o da mangiare. Si reggeva a stento in piedi.
Coi soliti spintoni e calci fu condotto in un piccolo cortile dal quale si scendeva in un altro locale interrato.
Era un androne dal soffitto alto, coi muri rivestiti di piastrelle verdi, come certi ospedali. Seduti su panche addossate alle pareti persone dall’aspetto sofferente aspettavano, con la testa bassa, la faccia tra le mani. C’erano numeroso porte, tutte chiuse. Urla acute, prolungate, provenivano da punti imprecisati. Una porta si spalancò e una figura avvolta in un lenzuolo insanguinato fu portata fuori da quattro uomini.
La camera di tortura del Partito Democratico.
Un luogo tristemente famoso, dove ogni orrore veniva consumato, ogni sofferenza patita, ogni umiliazione inflitta.
Max aspettò quattro ore su quella panca, sempre sul punto di svenire.
Quando stava probabilmente per spuntare l’alba un uomo gli si materializzò di fronte, lo afferrò per il bavero della logora camicia, strappandolo, e lo costrinse ad alzarsi in piedi.
“Avanti, cammina, bastardo” disse, spintonandolo verso una porta spalancata.
A fatica Max entrò, camminando sulle gambe ormai prive di forze. Non vide nulla, non sentì nulla. Avvertì la presenza di un uomo in giacca blu seduto dietro alla scrivania davanti alla quale era stato fatto sedere. Forse lo conosceva di vista. Forse l’aveva visto in televisione. Ma i suoi occhi faticavano a mettere a fuoco.
“Dunque, Ricciardi Massimo, lei è evaso dal penitenziario di Piacenza due mesi fa.”
“Acqua… per favore… non bevo da giorni… sto morendo…”
“Ah. Capisco. Falieri, questo ragazzo ha sete. Facciamolo bere.”
L’uomo si avvicinò a un lavandino, riempì una grande brocca di plastica e si portò di fonte a Max. Con la mano libera lo afferrò per i capelli, rovesciandogli indietro la testa, e gli appoggiò la brocca alle labbra. Spinse, fino a farlo sanguinare.
“Bevi, maiale di un terrorista, bevi” disse, come nel ringhio di una bestia.
L’acqua gli entrava nel naso, usciva dalla bocca e colava sulla camicia. Ebbe la sensazione che un incisivo si fosse spezzato. Però riuscì a bere.
“Bene, Ricciardi” riprese l’uomo, quando Max si fu ricomposto. “Non perderò tempo in convenevoli. Lei è un terrorista, e quindi sa cosa l’aspetta. Vogliamo sapere dove eravate diretti, lei e Robecchi Riccardo. Chi avreste dovuto incontrare? Ci dica chi sono i vostri complici, anche se stranieri.”
Max non rispose. L’acqua bevuta lo aveva in parte rinfrancato. Fissava il suo interlocutore cercando di ricordare dove lo aveva visto. In televisione, sicuramente. A un talk show. Un deputato o un sottosegretario del Partito Democratico.
“Non faccia lo sciocco” disse l’uomo. “Non le servirà a nulla. Anzi, peggiorerà la sua posizione. Lei dovrà tornare in carcere, e anche ammesso che sopravviva…” fece una pausa, e sorrise. “Non uscirà mai più. Se invece collabora, ci aiuta a smantellare un’altra cellula di terroristi No Tav, potrà uscire a breve, e le daremo anche un lavoro, qui nelle cooperative.”
Occhi chiari, capelli biondicci, modi aristocratici. Un cuperliano, senza dubbio.
waterboardingSolo quando mani robuste lo afferrarono con violenza, lo sollevarono di peso e lo trasportarono su un’asse inclinata si rese conto che nella stanza c’erano altre persone. Due uomini, coi baffetti e i capelli scuri. Dalemiani. Gli aguzzini.
Piedi e mani furono immobilizzati da cinghie fissate alla tavola. La testa era più bassa rispetto ai piedi. Uno degli uomini gli piantò un catetere nell’incavo del gomito destro, strappandogli un gemito. Poi collegò il tubicino di plastica con una bottiglia di liquido incolore.
“Che cazzo mi iniettate, cani bastardi?” urlò, dimenandosi. Ma anche la testa gli venne immobilizzata con una cinghia.
“Oh, non avevi sete? E’ soluzione fisiologica” disse l’uomo. Ma nella sua mano era comparsa una siringa. Ghignando, conficcò l’ago nel soffietto del catetere.
Max entrò in stato di iperventilazione. Terrore parossisitico. Aveva orrore di una sostanza chimica che entrava in lui, contro la sua volontà, come un parassita velenoso.
L’uomo se ne accorse, e sghignazzò. “Guarda bene questo liquido che ti entra nel sangue. Si chiama adenosina. Sarà una sorpresa!”
D’un tratto Max si sentì avvampare. La faccia sembrò gonfiarsi, iniziò a sudare copiosamente, il cuore gli esplodeva in gola e per quanto respirasse freneticamente non riusciva a immettere abbastanza ossigeno nei polmoni. La vista si annebbiava, gli occhi schizzavano dalle orbite.
Respirava ma si sentiva soffocare. Il bisogno di aria era disperato. Morte. Dunque era così che si moriva.
La situazione si aggravò quando uno panno gli venne applicato sulla faccia. Ora non riusciva più a respirare, mentre tutto il suo essere reclamava ossigeno.
Terrore. Disperazione totale. Delirio terminale.
Infine arrivò l’acqua. Sentiva le voci, le risate. Versavano acqua sul panno, togliendo gli ultimi residui di ossigeno. L’acqua entrava in bocca, nel naso, scendeva nei polmoni, facendolo tossire, soffocare, impazzire.
Fu scaraventato nella sala da due guardiani, che lo lanciarono come un sacco di patate. Si schiantò sul pavimento viscido, slittò fino al muro, dove cozzò con la testa contro corpi ossuti, mani scheletriche. I suoi gemiti si fusero coi gemiti degli altri.
Non respirava. Si sentiva i polmoni pieni d’acqua. Dunque sarebbe morto, per infezione. A meno che…
“Rick. Ti prego, aiutami. Mettimi a testa in giù.”
Rick, con l’ausilio di altri detenuti, lo aiutò a posizionarsi in posizione verticale rovesciata. Fu un’operazione complessa, per la debolezza di tutti, per il senso di svenimento che gli ottenebrava la mente. Ma dopo ripetuti tentativi riuscì a tossire, furiosamente, e a espellere una buona quantità d’acqua dai polmoni. Immediatamente alcune persone si precipitarono a leccare il pavimento, dove si era raccolta una piccola pozza.
Max si distese supino sul pavimento, esausto. Immagini vorticavano, suoni, il soffocamento, la disperazione, la morte.
“Allora, com’è andata?” chiese Rick. “Che t’hanno fatto?”
“Mah…” bofonchiò. Cercò, inutilmente, di tirarsi su. Ricadde sul pavimento, sbattendo la testa. “Abbastanza bene direi… abbiamo parlato un po’… e poi non c’erano i renziani… e quindi… e quindi… il mio culetto è salvo.”
[Le vicende qui narrate sono finzioni letterarie. In esse compaiono nomi e circostanze reali in qualità di pure occasioni narrative. I nomi di personaggi e di enti del mondo della politica vengono usati soltanto ai fini di denotare figure, immagini e sostanze dei sogni collettivi che sono stati formulati intorno ad essi, e si riferiscono quindi a un ambito mitologico che non ha nulla a che vedere con informazioni o opinioni circa la verità storica effettiva degli avvenimenti o delle persone su cui questo racconto elabora una pura fantasia]