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lunedì 16 marzo 2015

IL SALE DELLA TERRA uno dei film più straordinari di questa stagione

Regia di Wim Wenders e Juliano Ribeiro Salgado. Produzione Brasile, Italia, Francia, 2014. 
Da cinque mesi in programmazione a Torino. Visto a fine febbraio a Condove.


Magnificamente ispirato dalla potenza lirica della fotografia di Sebastião Salgado, Il sale della terra è un documentario monumentale, che traccia l'itinerario artistico e umano del fotografo brasiliano. Co-diretto da Wim Wenders (fotografo egli stesso) e Juliano Ribeiro Salgado, figlio dell'artista (che l'ha accompagnato nei suoi ultimi viaggi) Il sale della terra è un'esperienza estetica esemplare e potente, un'opera sullo splendore del mondo e sull'irragionevolezza umana che rischia di spegnerlo. Alternando la storia personale di Salgado con le riflessioni sul suo mestiere di fotografo, il documentario ha un respiro malickiano, intimo e cosmico insieme, è un oggetto fuori formato, una preghiera che dialoga con la carne, la natura e Dio. (www.mymovies.com)
Da quarant’anni Salgado attraversa i continenti sulle tracce di un’umanità in pieno cambiamento e di un pianeta che a questo cambiamento resiste. Dopo aver testimoniato alcuni tra i fatti più sconvolgenti della nostra storia contemporanea – conflitti internazionali, carestie, migrazioni di massa – si lancia adesso alla scoperta di territori inesplorati e grandiosi, per incontrare la fauna e la flora selvagge in un grande progetto fotografico, omaggio alla bellezza del pianeta che abitiamo. 


«Una foto non parla solo di chi è ritratto, ma anche di ritrae»

Due recensioni interessanti ai link:

http://it.ibtimes.com/articles/71730/20141022/il-sale-della-terra-film-recensione-wim-wenders-sebastiao-salgado-nuovo-festival-di-roma.htm#ixzz3UJLzNHlm
http://www.ondacinema.it/film/recensione/sale_della_terra.html

venerdì 26 dicembre 2014

QUI di Daniele Gaglianone - Salone Don Bunino Bussoleno domenica 28 dicembre 2014 ore 17.00

Dopo le proiezioni al TFF, ad Avigliana, Venaus e Condove,  Daniele Gaglianone e QUI arrivano a Bussoleno domenica 28 dicembre alle ore 17 al Salone Don Bunino.




Di seguito alcuni commenti e recensioni, volutamente e decisamente "di parte".

da http://www.ilfattoquotidiano.it/2014/11/28/qui-di-daniele-gaglianone-la-sera-della-prima-tra-lacrime-e-lacrimogeni/1236541/


Io ho cinquantacinque anni. Sono trent’anni che ho fatto del cinema il mio lavoro principale. Ho prodotto cento film, tra lungometraggi e cortometraggi. Miei film sono andati in tantissimi festival nel mondo. Mi sono emozionato, quando era tempo di emozionarsi. Negli anni l’emozione ha ceduto il passo ad altro. Ho riscosso successi, quasi sempre gratificanti, solo qualche volta appaganti. Ogni tanto qualche fischio. Ho pagato duramente sulla mia pelle errori commessi e anche alcuni non commessi. Mi porto addosso tante cicatrici e qualche ferita ancora aperta. Sono ossessionato dall’idea che questo lavoro mi abbia fatto diventare brutto, disonesto e scorretto, mancando di rispetto a molte persone, magari solo non dando una risposta. Le domande sul senso, sul perché, sul per chi spesso ormai non hanno una risposta chiara. Eppure continuo, vado avanti, con lo stesso entusiasmo di trent’anni fa. E’ il lavoro che volevo fare da bambino, l’ho scelto io, anche di farlo così. Ma non sempre è facile, non sempre basta ripetersi tutto ciò.


Poi un giorno arriva l’ennesima prima proiezione ad un Festival, quello di Torino, del centesimo film prodotto: Qui di Daniele Gaglianone. La sala è piena. Molta gente rimane fuori, non riesce ad entrare. Fa caldo. Si respira la tensione. Il tema NoTav è scottante, molto più qui a Torino che altrove. Vagando per le strade della città ci si imbatte spesso in scritte sui muri e manifesti che inneggiano alla lotta. La politica, anzi no, i partiti di questa città invece hanno le idee ben chiare: la lotta è sbagliata. E forse allora non è un caso che a qualche decina di chilometri da qui ci sono centinaia e centinaia di persone indagate solo perché vogliono salvaguardare il proprio futuro, lottando contro un presente minaccioso perché bugiardo, fazioso, irrispettoso, ingiusto. Profondamente ingiusto. In carcere ci sono quattro ragazzi accusati di terrorismo che rischiano una detenzione di dieci anni per aver danneggiato un compressore. E noi vogliamo cercare di far conoscere a più persone possibili le ragioni dei cittadini della Val di Susa attraverso questo film. Non è facile, in un paese dove si tende a dimenticare che “loro” in fondo siamo anche “noi”, in questo come in tanti altri casi.
Parte la proiezione. L’aria è diventata quasi irrespirabile. Io sudo. Il film l’ho già visto. Ma è la prima volta che lo vedo sullo schermo grande in compagnia di centinaia di altre persone. Mentre scorrono le immagini, mentre va avanti la galleria di persone normali che raccontano, ci raccontano e si raccontano, che tutto hanno fuorché l’aspetto di terroristi o bombaroli, mi guardo intorno. Il pubblico è attento. Nessuno se ne va. Il film fa pensare. Fa incazzare. Fa sorridere. Io piango, come non mi accadeva da anni al cinema. Piango perché a me viene da piangere quando un padre ex carabiniere mi racconta di aver educato un bambino di nove anni al rispetto dei poliziotti e il bambino chiede incredulo a quel padre se siano stati veramente i poliziotti a devastargli la faccia in venti fratture con due lacrimogeni. Piango perché a me viene da piangere quando tre persone, con il sorriso sul viso e la dignità nelle parole pacate mi raccontano che la loro casa potrebbe essere cancellata, senza che chi la cancellerà abbia pensato di avvertirli. Piango perché a me viene da piangere quando vedo una signora che potrebbe essere mia zia che si è dovuta ammanettare ad un cancello solo per dire io ci sono, io esisto, io rimango qui.
Piango. Con le lacrime che scendono sul viso, senza vergogna nei confronti delle persone che ho accanto e che potrebbero vedermi.
Quando il film finisce e le luci si accendono, ho il viso ancora bagnato. Lo lascio così.
Guardo Daniele. Guardo Enrico. Guardo Domenico. Guardo Vito. Guardo Andrea. Guardo Francesca. Guardo Walter. Guardo Valentina. Guardo Camilla. Guardo Cristina. Guardo le persone che abbiamo raccontato, che ci hanno raccontato, che si sono raccontate. E’ anche nei loro volti che stavolta trovo il senso, il perché, il per chi.
Esco dalla sala quando inizia il dibattito. Riesco ad ascoltare prima di uscire il lucido commento di Luca Rastello. Poi a testa bassa me ne vado. A medicare qualche mia ferita.
Alla fine, a me come regista di questo film, non è più questo che importa, il torto o la ragione. A me importa che alla fine di questo viaggio chi ha guardato questi volti e ascoltato queste voci comprenda che è possibile trovarsi nella loro condizione e fare le loro scelte, e che tutto questo, qui e ovunque, merita molto rispetto. E anche tanta gratitudine” (Daniele Gaglianone)
Una produzione low budget che invoca il diritto/dovere 
all'informazione e afferma l'importanza di tornare alla 
partecipazione politica
Raffaella Giancristofaro     * * * 1/2 -
Dieci abitanti della Val Susa offrono alla macchina da presa le loro storie, a vario titolo intrecciate con il movimento NO TAV, che si oppone alla costruzione della linea ferroviaria ad alta velocità Torino-Lione. Gabriella Tittonel fa parte del gruppo "Cattolici per la vita della valle", e nelle sue camminate controlla il cantiere di Chiomonte, sabota le recinzioni, prega e interagisce con le forze dell'ordine preposte a vigilare. Aurelio Loprevite, speaker di Radio Blackout di Torino, rivive gli scontri del 27 febbraio 2012 in cui Luca Abbà cadde dal traliccio su cui si era arrampicato e la popolazione ridusse in fuga la polizia. Nilo Durbiano rievoca il tesissimo momento del 2005 in cui Venaus era sotto assedio militare mentre lui ne era sindaco. Cinzia Dalle Pezze ricorda lo sgombero violento con gas cancerogeni della "libera Repubblica della Maddalena", il 27 giugno 2011. Alessandro Lupi, ex carabiniere colpito, da civile, da razzi lacrimogeni, confessa la sua difficoltà nello spiegare al figlio cosa sia la legalità. Guido Fissore, ex consigliere comunale di Villarfocchiardo, arrestato per i disordini dell'estate 2011 (accuse poi cadute), spiega i perché della sua "resistenza". Marisa Meyer racconta il gesto pacifico e beffardo di ammanettarsi alle griglie del cantiere di Chiomonte nell'aprile 2012. Luca Perino, il figlio Francesco e la moglie Paola Jacob rivelano come abbiano appreso che la loro abitazione sarebbe stata cancellata dal progetto dell'alta velocità. 
Che lo si chiami citizen journalism o documentario d'inchiesta alla Report, Qui ha il pregio di andare alla fonte delle storie che la cronaca dei quotidiani spesso non sa restituire. Grazie alla chiarezza d'intenti e di eloquio di tutti gli intervistati recupera il senso della dignità umana e del rispetto civile che solo la lotta comune (a maggior ragione se priva di un unico colore politico) può salvaguardare. Produzione low budget, senza altro obiettivo che quello di comprendere le ragioni del movimento NO TAV, i perché di un territorio che si è sollevato così ostinatamente, restituisce chiara e forte la richiesta dei cittadini di essere ascoltati, mentre i fatti dimostrano il contrario, ossia quello scollamento tra politica centrale e Paese reale all'ordine del giorno. 
Contro ogni generalizzazione il soggetto di Qui - scritto da Gaglianone con il giornalista e scrittore Giorgio Cattaneo - invoca il diritto/dovere all'informazione, al dialogo tra forze, al rispetto della legalità. Denuncia il paradosso di cittadini (le forze dell'ordine che presidiano la valle in assetto antisommossa) messi contro altri cittadini (dieci persone comuni - o forse dieci persone straordinarie, dipende dai punti di vista) da un potere politico che impone un'opera sul cui interesse pubblico è più che lecito dubitare. L'illegalità, insomma, assume un altro significato, se messa di fronte a un'illegalità più grande. Occupandosi di uno dei movimenti più violentemente repressi negli ultimi anni, Qui afferma l'importanza di tornare alla partecipazione politica: qualcosa che può dare frustrazione, ma anche un'inaspettata felicità.
di Raffaella Giancristofaro


Gaglianone, film: val Susa, la strana guerra contro tutti noi


Non possiamo non dirci NoTav? E’ la domanda che aleggia attorno all’indagine cinematografica che Daniele Gaglianone conduce in valle di Susa, tra la popolazione che da oltre vent’anni si oppone al progetto di una grande opera come la Torino-Lione, considerata devastante, costosissima e completamente inutile. In due ore, il regista de “I nostri anni”, “Ruggine” e “Rata Nece Biti” interroga l’umanità della “valle che resiste” – ieri al progetto Tav in quanto tale, oggi anche e soprattutto al sistema dipotere, percepito come oligarchico e repressivo, post-democratico, che vorrebbe imporre ad ogni costo i maxi-cantieri, ai quali ormai persino l’Ue e la Francia sembrano aver voltato le spalle. Nel documentario “Qui” (Torino Film Festival 2014), emergono le voci di un popolo, fatto di italiani che si sentono abbandonati e traditi dalle istituzioni politiche, dopo anni di vani appelli al dialogo, sempre respinti. In controluce, una tacita rivelazione: siamo ormai in tempo diguerra, e i primi a scoprirlo sono stati proprio loro, i NoTav della valle di Susa.
Travolti dal loro problema – il conflitto fisiologico tra grande opera e benessere del territorio – si sono comportati da cittadini democratici, appellandosi aidirittiprevisti dalla Costituzione. Tutto inutile: sono convinti che ilpoterenon abbia lasciato loro altra scelta che vedersela coi reparti della polizia antisommossa. La vertenza NoTav ha origini ormai lontane anni luce dall’attualità odierna, risale infatti a prima del Duemila. Nel documentario di Gaglianone, il primo grande scontro – quello del 2005 – è rievocato dal sindaco di Venaus, Nilo Durbiano, che fece suonare le campane a distesa per far accorrere la popolazione a sostegno degli inermi manifestanti, manganellati a freddo in piena notte. La rottura istituzionale è già perfettamente leggibile: Durbiano racconta di come, in quanto primo cittadino, fu convocato alle tre di notte alla Prefettura di Torino. Un colloquio gelido, evidentemente per sondare il sindaco alla vigilia del pestaggio destinato a sgomberare i NoTav dall’area di Venaus, dove allora doveva sorgere il cantiere della galleria preliminare esplorativa, oggi trasferito a Chiomonte.
Assenza di dialogo: come se fosse già in corso una sorta diguerra, non dichiarata, contro la popolazione. L’unico precedente, all’epoca, era stato il trauma del G8 di Genova, la Diaz e Bolzaneto, che stroncò il movimento no-global, di cui le multinazionali globaliste avevano paura. Subito dopo, l’infarto mondiale dell’11 Settembre e la “guerrainfinita” da esso originata: Afghanistan, Iraq, Gaza, Libia, Siria, Ucraina. E poi ancora Iraq, seguendo le eroiche imprese dell’Isis guidato dal “califfo” Al-Baghdadi. Un avventuriero che, secondo varie fonti – ultimo, il massone Gioele Magaldi col suo libro sulle super-logge delpotereocculto – fu liberato proprio perché mettesse in piedi l’armata jihadista. Quanto è lontana la valle di Susa dalle “armi chimiche” siriane e dalla manipolazione dello spread per imporre Monti a Palazzo Chigi? Molto meno di quanto si pensi, stando ai resoconti disarmati degli interlocutori di Gaglianone, praticamente smarriti di fronte alla dissoluzione di ogni solido punto di riferimento: la solitudine siderale del cittadino trova parziale conforto solo nellademocraziaspontanea che la stessa cittadinanza alimenta, sotto forma di movimento civile.
Servono risposte, e non arrivano mai. Così, dopo un po’ ci si arrende all’evidenza. Magari pregando, come fanno gli attivisti cattolici, il gruppo di Gabriella Tittonel che accompagna la troupe lungo i reticolati di Chiomonte, filo spinato di fabbricazione israeliana. O cercando di dialogare coi reparti antisommossa, come fa l’infermiera Cinzia Dalle Pezze, esasperata dall’abuso di lacrimogeni e gas tossici. Il documentario propone la voce di antagonisti come Aurelio Loprevite di “Radio Blackout”, in diretta telefonica con Luca Abbà quando l’attivista precipitò dal traliccio sul quale si era arrampicato per protesta, e militanti dal passato sorprendente come Alessandro Lupi, carabiniere in congedo e convinto NoTav, gravemente ferito al volto da un lacrimogeno. La telecamera raccoglie parole e silenzi di persone finite in carcere, pensionati decisi ad ammanettarsi alle recinzioni militarizzate, famiglie disposte a tutto per difendere la loro casa, minacciata dalla nuova arteria ferroviaria.
Sullo sfondo, i fantasmi di ogni realizzazione faraonica – devastazione ambientale,crisiidrogeologica, dissesto urbanistico, impatto insostenibile dei cantieri, rischi concreti per la salute e l’incolumità della popolazione – e in più, in questo caso, la sordità autistica ed esasperante dell’élite dipoteredi fronte alle più argomentate osservazioni tecniche, sciorinate dai migliori esperti dell’università italiana: la linea Tav Torino-Lione non è solo l’ennesimo attentato alle dissanguate finanze pubbliche del paese, non è solo l’ennesimo invito a nozze per l’imprenditorialità mafiosa, ma è anche e soprattutto uno spreco totalmente folle, visto che l’attuale linea ferroviaria internazionale che già attraversa la valle di Susa è praticamente deserta. Nonostante il recente e costoso ammodernamento del traforo del Fréjus, non esiste più traffico merci tra Italia e Francia: secondo l’osservatorio europeo per i trasporti alpini, affidato alla Svizzera, l’attuale linea valsusina italo-francese potrebbe tranquillamente incrementare del 900% il volume dei transiti. Perché allora incancrenire lo scontro sociale rincorrendo il miraggio di un super-treno miliardario da imporre a mano armata?
Perché non siamo più in tempo di pace, e da parecchi anni, sembrano suggerire i valsusini ascoltati da Gaglianone, i primi a constatare sulla loro pelle l’avvento del cambio d’epoca: loro erano già sulle barricate molto prima di Occupy Wall Street, prima degli “attentati” all’articolo 18, prima dellaguerradi Marchionne contro la Fiom. Erano in campo, i cittadini italiani della valle di Susa, ben prima della riforma Fornero, o delle recenti “rivelazioni” di Geithner sul “golpe dello spread”. La Merkel, Draghi, la “dittatura bancaria” dell’euro, la privatizzazione globale. E poi il Ttip, le torture inflitte alla Grecia, la teologia disonesta dell’austerity, la fine delwelfareeuropeo. Ormai il capolinea lo vedono tutti: l’abisso precario della disoccupazione, la sparizione del futuro. Loro, i valsusini, l’hanno avvistato in anticipo. Se c’è una parola che può riassumerli tutti, probabilmente questa parola è “democrazia”. Se ne avverte la dolorosa assenza, la nostalgia. «Se qualcuno mi parla ancora di Tav», scrisse Giorgio Bocca all’indomani dell’insurrezione popolare della valle del 2005, «tiro fuori il mio vecchio Thompson dal pozzo in cui l’avevo seppellito nel ‘45».
Vedeva lungo, il giornalista-partigiano. E oggi, la causa NoTav vanta autorevolissimi sostenitori, nel mondo culturale italiano: ormai le istanze democratiche della popolazione hanno trovato piena cittadinanza, nell’Italia tramortita dalla cosiddettacrisi. Malgrado il costante depistaggio dalla disinformazione “mainstream”, ognuno percepisce la minaccia concreta di un declino che pare inesorabile. Finalmente, con Gaglianone, protagonisti e testimoni della remota trincea valsusina ora affiorano in superficie, mostrando le loro voci e i loro volti, in una quotidianità che si sforza di restare ordinaria, benché terremotata dagli eventi. E’ un’umanità che si esprime con gesti semplici e rivela una natura mite, costretta a misurarsi con la violenza dell’imposizione, nel vuoto cosmico dellapolitica. Anni fa, espressioni come “destra” e “sinistra” avevano ancora maschere rappresentative. Puro teatro, ormai, come sperimentato nella valle alpina che unisce Torino alla Francia. Dove però la grande calamità collettiva ha cementato una comunità plurale, di italiani che resistono e sperano. E che, nel film di Gaglianone, parlano una lingua immediatamente riconoscibile e universale.
(Il film: “Qui”, di Daniele Gaglianone, Italia 2014, 120′, prodotto da Gianluca Arcopinto  e Domenico Procacci – produzione “Axelotil Film”, “Fandango”, in collaborazione con Babydoc Film – distribuito da “Pablo”).
Non possiamo non dirci NoTav? E’ la domanda che aleggia attorno all’indagine cinematografica che Daniele Gaglianone conduce in valle di Susa, tra la popolazione che da oltre vent’anni si oppone al progetto di una grande opera come la Torino-Lione, considerata devastante, costosissima e completamente inutile. In due ore, il regista de “I nostri anni”, “Ruggine” e “Rata Nece Biti” interroga l’umanità della “valle che resiste” – ieri al progetto Tav in quanto tale, oggi anche e soprattutto al sistema di potere, percepito come oligarchico e repressivo, post-democratico, che vorrebbe imporre ad ogni costo i maxi-cantieri, ai quali ormai persino l’Ue e la Francia sembrano aver voltato le spalle. Nel documentario “Qui” (Torino Film Festival 2014), emergono le voci di un popolo, fatto di italiani che si sentono abbandonati e traditi dalle istituzioni politiche, dopo anni di vani appelli al dialogo, sempre respinti. In controluce, una tacita rivelazione: siamo ormai in tempo di guerra, e i primi a scoprirlo sono stati proprio loro, i NoTav della valle di Susa.
Travolti dal loro problema – il conflitto fisiologico tra grande opera e benessere del territorio – si sono comportati da cittadini democratici, appellandosi ai diritti previsti dalla Costituzione. Tutto inutile: sono convinti che il potere non abbia lasciato loro NoTavaltra scelta che vedersela coi reparti della polizia antisommossa. La vertenza NoTav ha origini ormai lontane anni luce dall’attualità odierna, risale infatti a prima del Duemila. Nel documentario di Gaglianone, il primo grande scontro – quello del 2005 – è rievocato dal sindaco di Venaus, Nilo Durbiano, che fece suonare le campane a distesa per far accorrere la popolazione a sostegno degli inermi manifestanti, manganellati a freddo in piena notte. La rottura istituzionale è già perfettamente leggibile: Durbiano racconta di come, in quanto primo cittadino, fu convocato alle tre di notte alla Prefettura di Torino. Un colloquio gelido, evidentemente per sondare il sindaco alla vigilia del pestaggio destinato a sgomberare i NoTav dall’area di Venaus, dove allora doveva sorgere il cantiere della galleria preliminare esplorativa, oggi trasferito a Chiomonte.
Assenza di dialogo: come se fosse già in corso una sorta di guerra, non dichiarata, contro la popolazione. L’unico precedente, all’epoca, era stato il trauma del G8 di Genova, la Diaz e Bolzaneto, che stroncò il movimento no-global, di cui le multinazionali globaliste avevano paura. Subito dopo, l’infarto mondiale dell’11 Settembre e la “guerra infinita” da esso originata: Afghanistan, Iraq, Gaza, Libia, Siria, Ucraina. E poi ancora Iraq, seguendo le eroiche imprese dell’Isis guidato dal “califfo” Al-Baghdadi. Un avventuriero che, secondo varie fonti – ultimo, il massone Gioele Magaldi col suo libro sulle super-logge del potere occulto – fu liberato proprio perché mettesse in piedi l’armata jihadista. Quanto è lontana la valle di Susa dalle “armi chimiche” siriane e dalla manipolazione dello spread per imporre Monti a Palazzo Chigi? Molto meno di quanto si pensi, stando ai resoconti disarmati degli interlocutori di Gaglianone, praticamente smarriti di fronte alla dissoluzione di ogni solido Gabriella Tittonel, attivista cattolica NoTavpunto di riferimento: la solitudine siderale del cittadino trova parziale conforto solo nellademocrazia spontanea che la stessa cittadinanza alimenta, sotto forma di movimento civile.
Servono risposte, e non arrivano mai. Così, dopo un po’ ci si arrende all’evidenza. Magari pregando, come fanno gli attivisti cattolici, il gruppo di Gabriella Tittonel che accompagna la troupe lungo i reticolati di Chiomonte, filo spinato di fabbricazione israeliana. O cercando di dialogare coi reparti antisommossa, come fa l’infermiera Cinzia Dalle Pezze, esasperata dall’abuso di lacrimogeni e gas tossici. Il documentario propone la voce di antagonisti come Aurelio Loprevite di “Radio Blackout”, in diretta telefonica con Luca Abbà quando l’attivista precipitò dal traliccio sul quale si era arrampicato per protesta, e militanti dal passato sorprendente come Alessandro Lupi, carabiniere in congedo e convinto NoTav, gravemente ferito al volto da un lacrimogeno. La telecamera raccoglie parole e silenzi di persone finite in carcere,Marisa Meyer, pasionaria NoTavpensionati decisi ad ammanettarsi alle recinzioni militarizzate, famiglie disposte a tutto per difendere la loro casa, minacciata dalla nuova arteria ferroviaria.
Sullo sfondo, i fantasmi di ogni realizzazione faraonica – devastazione ambientale, crisi idrogeologica, dissesto urbanistico, impatto insostenibile dei cantieri, rischi concreti per la salute e l’incolumità della popolazione – e in più, in questo caso, la sordità autistica ed esasperante dell’élite di potere di fronte alle più argomentate osservazioni tecniche, sciorinate dai migliori esperti dell’università italiana: la linea Tav Torino-Lione non è solo l’ennesimo attentato alle dissanguate finanze pubbliche del paese, non è solo l’ennesimo invito a nozze per l’imprenditorialità mafiosa, ma è anche e soprattutto uno spreco totalmente folle, visto che l’attuale linea ferroviaria internazionale che già attraversa la valle di Susa è praticamente deserta. Nonostante il recente e costoso ammodernamento del traforo del Fréjus, non esiste più traffico merci tra Italia e Francia: secondo l’osservatorio europeo per i trasporti alpini, affidato alla Svizzera, l’attuale linea valsusina italo-francese potrebbe tranquillamente incrementare del 900% il volume dei transiti. Perché allora incancrenire lo scontro sociale rincorrendo il miraggio di un super-treno miliardario da imporre a mano armata?
Perché non siamo più in tempo di pace, e da parecchi anni, sembrano suggerire i valsusini ascoltati da Gaglianone, i primi a constatare sulla loro pelle l’avvento del cambio d’epoca: loro erano già sulle barricate molto prima di Occupy Wall Street, prima degli “attentati” all’articolo 18, prima della guerra di Marchionne contro la Fiom. Erano in campo, i cittadini italiani della valle di Susa, ben prima della riforma Fornero, o delle recenti “rivelazioni” di Geithner sul “golpe dello spread”. La Merkel, Draghi, la “dittatura bancaria” dell’euro, la privatizzazione globale. E poi il Ttip, le torture inflitte alla Grecia, la teologia disonesta dell’austerity, la fine del welfare europeo. Ormai il capolinea lo vedono tutti: l’abisso precario della disoccupazione, la sparizione del futuro. Loro, i valsusini, l’hanno avvistato in anticipo. Se c’è una parola che può riassumerli tutti, probabilmente questa parola è “democrazia”. Se ne avverte la dolorosa assenza, la nostalgia. «Se qualcuno mi parla ancora di Tav», scrisse GaglianoneGiorgio Bocca all’indomani dell’insurrezione popolare della valle del 2005, «tiro fuori il mio vecchio Thompson dal pozzo in cui l’avevo seppellito nel ‘45».
Vedeva lungo, il giornalista-partigiano. E oggi, la causa NoTav vanta autorevolissimi sostenitori, nel mondo culturale italiano: ormai le istanze democratiche della popolazione hanno trovato piena cittadinanza, nell’Italia tramortita dalla cosiddetta crisi. Malgrado il costante depistaggio dalla disinformazione “mainstream”, ognuno percepisce la minaccia concreta di un declino che pare inesorabile. Finalmente, con Gaglianone, protagonisti e testimoni della remota trincea valsusina ora affiorano in superficie, mostrando le loro voci e i loro volti, in una quotidianità che si sforza di restare ordinaria, benché terremotata dagli eventi. E’ un’umanità che si esprime con gesti semplici e rivela una natura mite, costretta a misurarsi con la violenza dell’imposizione, nel vuoto cosmico della politica. Anni fa, espressioni come “destra” e “sinistra” avevano ancora maschere rappresentative. Puro teatro, ormai, come sperimentato nella valle alpina che unisce Torino alla Francia. Dove però la grande calamità collettiva ha cementato una comunità plurale, di italiani che resistono e sperano. E che, nel film di Gaglianone, parlano una lingua immediatamente riconoscibile e universale.
(Il film: “Qui”, di Daniele Gaglianone, Italia 2014, 120′, prodotto da Gianluca Arcopinto  e Domenico Procacci – produzione “Axelotil Film”, “Fandango”, in collaborazione con Babydoc Film – distribuito da “Pablo”. In rete: “Qui” suFacebook. Twitter: @qui_notav. Pablo Distribuzione: su YouTube e Facebook).



Dieci storie diverse che raccontano l’opposizione alla Tav: il documentario di Gaglianone, in sala in questi giorni, mostra l’altro lato della protesta di una popolazione intera  Di Michele Nardini Una donna che parla, di fronte a lei una schiera di poliziotti in divisa anti sommossa. I modi sono pacati, la voce decisa, le parole penetranti. La donna espone le sue ragioni con fermezza, esprime il suo dissenso nella maniera più civile possibile: parlando, agitando le coscienze attraverso l’arringa e il pensiero. Davanti a lei gli sguardi di pietra dei poliziotti sono inscalfibili. Sguardi fissi, implacabili, imperscrutabili; sguardi inflessibili, di chi non vuole o non può ascoltare. Qui è il nuovo film di Daniele Gaglianone, un documentario che presenta dieci storie di gente comune che si oppone alla costruzione della linea ferroviaria ad alta velocità Torino-Lione. Presentato al Torino Film Festival, il documentario ha ottenuto il premio “Gli occhiali di Gandhi”, per il film che meglio rappresenta la visione gandhiana del mondo. 

E proprio la scelta del Tff di assegnare questo premio al film di Gaglianone apre uno spiraglio di riflessione: troppo spesso, sembra dire Gaglianone, il movimento NO TAV è stato vittima di approssimazioni, di punti di vista parziali a volte pilotati. È necessario un punto di vista nuovo sul movimento e sugli attivisti, un punto di vista sgombro da qualsiasi ideologia, da qualsiasi pregiudizio, costruito su storie vere, su storie vissute che mettono davanti alla macchina da presa l’impatto che il cantiere dell’alta velocità ha sulla vita quotidiana e futura della popolazione della Val Di Susa. 

Il film, come detto, si compone di dieci storie di resistenza e opposizione alla Tav. Le dieci persone che raccontano la loro esperienza contro la Tav rappresentano modi e pensieri diversi tra di loro: l’attivista cattolica, lo speaker di Radio Black Out, il sindaco di Venaus, uno dei comuni della Val di Susa, il carabiniere in congedo ferito da un razzo lacrimogeno e che non sa raccontare a suo figlio che è stato ridotto così da chi dovrebbe tutelare la legalità, l’agricoltore preso di mira dalle istituzioni, la famiglia che rischia di vedere la propria abitazione rasa al suolo per fare posto a uno dei cantieri più importanti della linea. Uomini e donne normali, in alcuni casi perfino esponenti delle istituzioni, uniti da un unico comune denominatore: la battaglia per ritrovare il senso di essere cittadini, la battaglia per avere voce nella nostra democrazia che troppo spesso si dimentica la Costituzione e la garanzia, per tutti, di avere una rappresentanza. 

E proprio qui il film di Gaglianone colpisce a fondo: rifiutando ogni tentativo di adesione al linguaggio cinematografico, puntando su uno stile sobrio, che limita al massimo l’invadenza della macchina da presa e lascia ampia autonomia ai fatti raccontati dalle persone, il regista riesce a realizzare un vero e proprio documentario d’inchiesta, un film sulla necessità della partecipazione attiva alle grandi questioni etiche, sociali e politiche. Ma non c’è animo sovversivo, tutt’altro: Gaglianone vuole ripristinare lo stato di diritto, la dignità della lotta per un bene comune e, al contempo, denunciare i metodi dello Stato, sordo alle richieste della popolazione. Lo scollamento sembra irrimediabile: da una parte i cittadini che, nella eterogeneità dei movimenti e delle sigle, si oppongono ai cantieri della Tav; dall’altra le istituzioni, i cui simboli diventano i lacrimogeni contenenti gas cancerogeni lanciati dalle forze dell’ordine e i chilometri di filo spinato sparso lungo le recinzioni. 

Gaglianone ha spiegato che il senso del film è far capire che qualunque persona si trovasse in quelle condizioni, non potrebbe fare altro che schierarsi. Per forza di cose. È chiaro l’intento del regista torinese, che restituisce la realtà senza filtri e sembra ispirarsi a certe vecchie idee di cinema militante nelle quali il metodo da seguire è quella dell’inchiesta. Sarebbe forse contento il Goffredo Fofi dei tempi di “Ombre Rosse”: perché per un cinema capace di smuovere le coscienze non serve un copione. Né tantomeno una sceneggiatura. Servono storie e protagonisti veri.
di Michele Nardini

Qui, di Daniele Gaglianone

Sembra ormai che l'unica vera preoccupazione di Daniele Gaglianone sia quella di arrivare alla scoperta di un cinema necessario, di trovare quella strada che gli permetta di andare avanti con il lavoro, di far aderire un'urgenza etica pressante alle possibili soluzioni formali, narrative, estetiche. Anche a dispetto di esse

È strano: Qui è un film irrecensibile, probabilmente. Potremmo raccontarlo, passo per passo. Dieci abitanti della Val di Susa, diversissimi per età, estrazione sociale, stile di vita, interessi, aspirazioni, ma tutti uniti nel rifiuto categorico della famigerata TAV Torino-Lione. Non per motivazioni ideologiche, ma per il semplice e sacrosanto bisogno di difendere il proprio mondo dall'arroganza di scelte (poco) strategiche imposte dall'alto. Sì, potremmo raccontare le parole e i gesti di Gabriella Tittonel, attivista cattolica, di Aurelio Loprevite, lo speaker di Radio Blackout sempre impegnato a raccontare i drammatici scontri tra i manifestanti e le forze dell'ordine, e di tutti gli altri personaggi incontrati da Daniele Gaglianone. Ma il film non verrebbe comunque fuori. Il cinema rimarrebbe a lato, in disparte.

Qui è senza dubbio un atto d'intervento, è ciò che potremmo chiamare un'opera militante. "Qui e ora", appunto, testimonianza e documento, che risponde a una precisa scelta di campo di Gaglianone, lucidamente "di parte", già a partire da quella didascalia iniziale in cui fa riferimento alle parole di un rappresentante delle forze dell'ordine, secondo cui è impossibile trovare qualcuno a favore della linea ad alta velocità: solo chi non conosce il progetto dell'opera, può difenderla; per il resto, la sua assurdità è scritta nelle cose. Tutto è sin troppo chiaro, evidente. Eppure, ripetiamo, il cinema sembra restare fuori. In qualche modo, qui, al film sfugge l'oggetto. Non che non abbia la forza di far emergere il senso di una lotta senza classe e senza età, tutta l'urgenza e la ragione di una protesta contro scelte politiche miopi e sorde. Ma è come se Gaglianone, a prescindere, rinunciasse a qualsiasi strategia di racconto, alla possibilità stessa di uno sguardo capace di intervenire sulle forme del reale. Sta lì, ascolta, a un certo appare in campo, quando i poliziotti chiedono i documenti della troupe. Ma non interviene, abdica apertamente al suo ruolo di autore. E allora perché il cinema?

Quello che facciamo a che cazzo serve? La domanda è sempre la stessa, quella che partiva spontanea da Mastandrea nel momento in cui La mia classe entrava in impasse, in quello strabiliante vicolo cieco in cui non c'era più alcuna finzione, alcuna struttura, sceneggiatura, programma in grado di reggere alla prova dei fatti, alla pressione degli eventi. Ed è questo, allora, ancora, il cuore profondo di Qui – girato più o meno in contemporanea – quello che colpisce allo stomaco con una forza da lasciare senza fiato. Mi sembra ormai che l'unica vera preoccupazione di Daniele Gaglianone sia quella di arrivare alla scoperta di un cinema necessario, di trovare quella strada che gli permetta di andare avanti con il lavoro, di far aderire un'urgenza etica pressante alle possibili soluzioni formali, narrative, estetiche. Anche a dispetto di esse. Una visione morale, in altri termini, che faccia parlare le persone, si faccia toccare dalle loro vite, dalle loro verità, che le accompagni con rispetto e pudore fino a farle venire fuori, libere dai vincoli della finzione, dalle storture dell'interpretazione. Senza queste vite, queste verità, il cinema davvero non serve a un cazzo. E questa umile consapevolezza sembra l'unica risposta possibile al narcisismo imperante dei tanti, cento, mille Autori che sacrificano le storie sull'altare dello stile. Ed è per questo, non fosse che per questo, che Qui è una bomba molotov scagliato contro le dittature della forma e dell'istituzione. Grazie.



domenica 12 ottobre 2014

IO STO CON LA SPOSA - 6 NOVEMBRE CINEMA CONDOVE ORE 21.00



assolutamente da non perdere!

proiezione al cinema di Condove

Giovedi 6 Novembre ore 21


in collaborazione con il Comune


un film di Antonio Augugliaro, Gabriele Del Grande e Khaled Soliman Al Nassiry
"Siamo partiti dal basso, abbiamo tenuto duro nei momenti più difficili e adesso eccoci qui! Con voi a cambiare l'estetica della frontiera. E a sdoganare al grande pubblico l'idea della libera circolazione e della disobbedienza civile".




Riportiamo da www.lasicilia.it un commento al film:



«C’è un sole unico per tutta l’umanità, una sola luna. Anche il mare è di tutti, così la vita. È di tutti e per tutti». A ricordarcelo è Tasneem Fared, giovane sposa palestinese in viaggio da Milano a Stoccolma con l’abito bianco indosso, il futuro marito al fianco e un corteo di amici siriani, palestinesi e italiani al seguito. Tutti protagonisti del coraggioso film-documentario “Io sto con la sposa” di Gabriele Del Grande, Antonio Augugliaro e Khaled Soliman Al Nassiry, uscito nelle sale italiane il 9 ottobre.
Coraggioso ed emozionante perché non è un matrimonio come tanti, quello di Tasneem e Abdallah. La scintilla si accende quando il giornalista Gabriele Del Grande – classe 1982 e già l’esperienza sul campo delle primavere arabe e della guerre in Libia e in Siria – e il poeta palestinese siriano Khaled Soliman Al Nassiry – ormai milanese di adozione – incontrano a Milano cinque palestinesi e siriani in fuga dalla guerra, sbarcati a Lampedusa e alcuni sopravvissuti alla tragedia dell’11 ottobre di un anno fa, quando a distanza di una settimana dalla precedente strage in mare, al largo dell’isola morirono altri 260 profughi siriani, tra cui almeno sessanta bambini. Per Abdallah, i coniugi Mona e Ahmed, il giovanissimo Manar e suo padre Alaa l’Italia è solo un luogo di passaggio. Per questo sono decisi a proseguire il viaggio, come tanti altri, verso la Svezia. Ancora da clandestini. Le leggi italiane ed europee sull’immigrazione, infatti, non danno loro altra scelta, così Gabriele e Khaled, piuttosto che lasciarli nuovamente in balia dei trafficanti di uomini che gestiscono anche il contrabbando via terra verso nord, decidono di aiutarli con un atto di disobbedienza civile che potrebbe costare loro fino a quindici anni di prigione. Mettono, quindi, in scena un finto matrimonio travestendo da sposi l’amica Tasneem e il “fuggitivo” Abdallah e da invitati alla cerimonia una decina di altri amici e affidano al regista milanese Antonio Augugliaro il compito di documentare il viaggio vero, folle e miracoloso di questo improbabile corteo nuziale attraverso l’Europa.Tremila chilometri in quattro giorni, tra il 14 e il 18 novembre 2013, sulla strada che da Milano deve portarli a Stoccolma. In auto fino a Ventimiglia, a piedi attraverso il “Passo della morte” che a Grimaldi Superiore segna il confine tra Italia e Francia e poi di nuovo in auto attraverso il Lussemburgo fino a Bochum in Germania e Copenaghen in Danimarca, ultima tappa prima di raggiungere la Svezia. Ogni passaggio di frontiera, confine, dogana è un’esplosione di tensione, prima, e di gioia, dopo. Una gioia che va festeggiata doppiamente, dato che ad accogliere il corteo ci sono di solito amici e parenti lasciati anni addietro nei rispettivi Paesi di origine e rincontrati adesso per la prima volta. Come ad un vero banchetto di nozze, dove si canta, si brinda, si balla, anche per esorcizzare il dolore e la malinconia che riempiono i loro racconti.“Io sto con la sposa”, realizzato grazie ad una efficace campagna di crowdfounfing online sulla piattaforma Indiegogo (100 mila euro in 60 giorni con il contributo di 2617 persone in 38 Paesi) apre tappa dopo tappa, uno squarcio nelle vite dei protagonisti. Che si raccontano ricordandoci le contraddizioni spesso crudeli e spietate del sistema Europa e l’orrore da cui fuggono migliaia di uomini, donne e bambini che per la disperazione arrivano a pagare mille dollari a testa per morire in mare. Racconti cui dà voce anche il rap grintoso e insieme struggente del piccolo Manar, un vero giovanissimo talento che esprime in musica tutta la maturità prematura che l’esperienza di vita gli ha fatto fiorire dentro. «Quanti occhi hanno pianto mentre il mondo restava a guardare? » canta Manar, ripercorrendo la storia di un popolo senza terra, da sempre costretto allo status di rifugiato. Un popolo che resterà unito «anche se la morte si sarà accampata dentro di noi».Oggi, nove mesi dopo il viaggio, Abdallah, Mona e Ahmed vivono in Svezia dove hanno ottenuto lo status di rifugiato politico. Manar e suo padre Alaa, invece, sono stati respinti in Italia dove però hanno ottenuto asilo politico. Tasneem è tornata in Italia con Gabriele, Khaled e gli altri invitati. Il documentario è “dedicato ai nostri figli perché ricordino sempre che nella vita arriva il momento di scegliere da che parte stare”. Io sto con la sposa. E tu?

lunedì 29 settembre 2014

PASOLINI di Abel Ferrara - Siamo tutti in pericolo




Film complesso, discontinuo ma affascinante, un tributo di Ferrara a colui che considera un suo maestro. 

Da vedere anche perché ripropone le riflessioni di Pier Palo Pasolini nei suoi ultimi giorni di vita, riflessioni quanto mai attuali, a distanza di 40 anni.


A questo proposito pubblichiamo il testo dell'intervista che il regista rilasciò a Furio Colombo e che fu pubblicato sull'inserto "Tuttolibri" del quotidiano "La Stampa" l'8 novembre 1975.




Siamo tutti in pericolo / intervista di Furio Colombo a Pier Paolo Pasolini
Questa intervista ha avuto luogo sabato 1° novembre, fra le 4 e le 6 del pomeriggio, poche ore prima che Pasolini venisse assassinato. Voglio precisare che il titolo dell’incontro che appare in questa pagina è suo, non mio. Infatti alla fine della conversazione che spesso, come in passato, ci ha trovati con persuasioni e punti di vista diversi, gli ho chiesto se voleva dare un titolo alla sua intervista. Ci ha pensato un po’, ha detto che non aveva importanza, ha cambiato discorso, poi qualcosa ci ha riportati sull’argomento di fondo che appare continuamente nelle risposte che seguono. "Ecco il seme, il senso di tutto - ha detto - Tu non sai neanche chi adesso sta pensando di ucciderti. Metti questo titolo, se vuoi: "Perché siamo tutti in pericolo"".
Pasolini, tu hai dato nei tuoi articoli e nei tuoi scritti, molte versioni di ciò che detesti. Hai aperto una lotta, da solo, contro tante cose, istituzioni, persuasioni, persone, poteri. Per rendere meno complicato il discorso io dirò "la situazione", e tu sai che intendo parlare della scena contro cui, in generale ti batti. Ora ti faccio questa obiezione. La "situazione" con tutti i mali che tu dici, contiene tutto ciò che ti consente di essere Pasolini. Voglio dire: tuo è il merito e il talento. Ma gli strumenti? Gli strumenti sono della "situazione". Editoria, cinema, organizzazione, persino gli oggetti. Mettiamo che il tuo sia un pensiero magico. Fai un gesto e tutto scompare. Tutto ciò che detesti. E tu? Tu non resteresti solo e senza mezzi? Intendo mezzi espressivi, intendo...
Sì, ho capito. Ma io non solo lo tento, quel pensiero magico, ma ci credo. Non in senso medianico. Ma perché so che battendo sempre sullo stesso chiodo può persino crollare una casa. In piccolo un buon esempio ce lo danno i radicali, quattro gatti che arrivano a smuovere la coscienza di un Paese (e tu sai che non sono sempre d’accordo con loro, ma proprio adesso sto per partire, per andare al loro congresso). In grande l’esempio ce lo dà la storia. Il rifiuto è sempre stato un gesto essenziale. I santi, gli eremiti, ma anche gli intellettuali. I pochi che hanno fatto la storia sono quelli che hanno detto di no, mica i cortigiani e gli assistenti dei cardinali. Il rifiuto per funzionare deve essere grande, non piccolo, totale, non su questo o quel punto, "assurdo" non di buon senso. Eichmann, caro mio, aveva una quantità di buon senso. Che cosa gli è mancato? Gli è mancato di dire no su, in cima, al principio, quando quel che faceva era solo ordinaria amministrazione, burocrazia. Magari avrà anche detto agli amici, a me quell’Himmler non mi piace mica tanto. Avrà mormorato, come si mormora nelle case editrici, nei giornali, nel sottogoverno e alla televisione. Oppure si sarà anche ribellato perché questo o quel treno si fermava, una volta al giorno per i bisogni e il pane e acqua dei deportati quando sarebbero state più funzionali o più economiche due fermate. Ma non ha mai inceppato la macchina. Allora i discorsi sono tre. Qual è, come tu dici, "la situazione", e perché si dovrebbe fermarla o distruggerla. E in che modo. (...)
Che cos’è il potere, secondo te, dove è, dove sta, come lo stani?
Il potere è un sistema di educazione che ci divide in soggiogati e soggiogatori. Ma attento. Uno stesso sistema educativo che ci forma tutti, dalle cosiddette classi dirigenti, giù fino ai poveri. Ecco perché tutti vogliono le stesse cose e si comportano nello stesso modo. Se ho tra le mani un consiglio di amministrazione o una manovra di Borsa uso quella. Altrimenti una spranga. E quando uso una spranga faccio la mia violenza per ottenere ciò che voglio. Perché lo voglio? Perché mi hanno detto che è una virtù volerlo. Io esercito il mio diritto-virtù. Sono assassino e sono buono.
Ti hanno accusato di non distinguere politicamente e ideologicamente, di avere perso il segno della differenza profonda che deve pur esserci fra fascisti e non fascisti, per esempio fra i giovani.
Per questo ti parlavo dell’orario ferroviario dell’anno prima. Hai mai visto quelle marionette che fanno tanto riderei bambini perché hanno il corpo voltato da una parte e la testa dalla parte opposta? Mi pare che Totò riuscisse in un trucco del genere. Ecco io vedo così la bella truppa di intellettuali, sociologi, esperti e giornalisti delle intenzioni più nobili, le cose succedono qui e la testa guarda di là. Non dico che non c’è il fascismo. Dico: smettete di parlarmi del mare mentre siamo in montagna. Questo è un paesaggio diverso. Qui c’è la voglia di uccidere. E questa voglia ci lega come fratelli sinistri di un fallimento sinistro di un intero sistema sociale. Piacerebbe anche a me se tutto si risolvesse nell’isolare la pecora nera. Le vedo anch’io le pecore nere. Ne vedo tante. Le vedo tutte. Ecco il guaio, ho già detto a Moravia: con la vita che faccio io pago un prezzo... È come uno che scende all’inferno. Ma quando torno - se torno - ho visto altre cose, più cose. Non dico che dovete credermi. Dico che dovete sempre cambiare discorso per non affrontare la verità.
E qual è la verità?
Mi dispiace avere usato questa parola. Volevo dire "evidenza". Fammi rimettere le cose in ordine. Prima tragedia: una educazione comune, obbligatoria e sbagliata che ci spinge tutti dentro l’arena dell’avere tutto a tutti i costi. In questa arena siamo spinti come una strana e cupa armata in cui qualcuno ha i cannoni e qualcuno ha le spranghe. Allora una prima divisione, classica, è "stare con i deboli". Ma io dico che, in un certo senso tutti sono i deboli, perché tutti sono vittime. E tutti sono i colpevoli, perché tutti sono pronti al gioco del massacro. Pur di avere. L’educazione ricevuta è stata: avere, possedere, distruggere.
Allora fammi tornare alla domanda iniziale. Tu, magicamente abolisci tutto. Ma tu vivi di libri, e hai bisogno di intelligenze che leggono. Dunque, consumatori educati del prodotto intellettuale. Tu fai del cinema e hai bisogno non solo di grandi platee disponibili (infatti hai in genere molto successo popolare, cioè sei "consumato" avidamente dal tuo pubblico) ma anche di una grande macchina tecnica, organizzativa, industriale, che sta in mezzo. Se togli tutto questo, con una specie di magico monachesimo di tipo paleo-cattolico e neo- cinese, che cosa ti resta?
A me resta tutto, cioè me stesso, essere vivo, essere al mondo, vedere, lavorare, capire. Ci sono cento modi di raccontare le storie, di ascoltare le lingue, di riprodurre i dialetti, di fare il teatro dei burattini. Agli altri resta molto di più. Possono tenermi testa, colti come me o ignoranti come me. Il mondo diventa grande, tutto diventa nostro e non dobbiamo usare né la Borsa, né il consiglio di amministrazione, né la spranga, per depredarci. Vedi, nel mondo che molti di noi sognavano (ripeto: leggere l’orario ferroviario dell’anno prima, ma in questo caso diciamo pure di tanti anni prima) c’era il padrone turpe con il cilindro e i dollari che gli colavano dalle tasche e la vedova emaciata che chiedeva giustizia con i suoi pargoli. Il bel mondo di Brecht, insomma.
Come dire che hai nostalgia di quel mondo.
No! Ho nostalgia della gente povera e vera che si batteva per abbattere quel padrone senza diventare quel padrone. Poiché erano esclusi da tutto nessuno li aveva colonizzati. Io ho paura di questi negri in rivolta, uguali al padrone, altrettanti predoni, che vogliono tutto a qualunque costo. Questa cupa ostinazione alla violenza totale non lascia più vedere "di che segno sei". Chiunque sia portato in fin di vita all’ospedale ha più interesse - se ha ancora un soffio di vita - in quel che gli diranno i dottori sulla sua possibilità di vivere che in quel che gli diranno i poliziotti sulla meccanica del delitto. Bada bene che io non facio né un processo alle intenzioni né mi interessa ormai la catena causa effetto, prima loro, prima lui, o chi è il capo-colpevole. Mi sembra che abbiamo definito quella che tu chiami la "situazione". È come quando in una città piove e si sono ingorgati i tombini. l’acqua sale, è un’acqua innocente, acqua piovana, non ha né la furia del mare né la cattiveria delle correnti di un fiume. Però, per una ragione qualsiasi non scende ma sale. È la stessa acqua piovana di tante poesiole infantili e delle musichette del "cantando sotto la pioggia". Ma sale e ti annega. Se siamo a questo punto io dico: non perdiamo tutto il tempo a mettere una etichetta qui e una là. Vediamo dove si sgorga questa maledetta vasca, prima che restiamo tutti annegati.
E tu, per questo, vorresti tutti pastorelli senza scuola dell’obbligo, ignoranti e felici.
Detta così sarebbe una stupidaggine. Ma la cosiddetta scuola dell’obbligo fabbrica per forza gladiatori disperati. La massa si fa più grande, come la disperazione, come la rabbia. Mettiamo che io abbia lanciato una boutade (eppure non credo) Ditemi voi una altra cosa. S’intende che rimpiango la rivoluzione pura e diretta della gente oppressa che ha il solo scopo di fari libera e padrona di se stessa. S’intende che mi immagino che possa ancora venire un momento così nella storia italiana e in quella del mondo. Il meglio di quello che penso potrà anche ispirarmi una delle mie prossime poesie. Ma non quello che so e quello che vedo. Voglio dire fuori dai denti: io scendo all’inferno e so cose che non disturbano la pace di altri. Ma state attenti. L’inferno sta salendo da voi. È vero che sogna la sua uniforme e la sua giustificazione (qualche volta). Ma è anche vero che la sua voglia, il suo bisogno di dare la sprangata, di aggredire, di uccidere, è forte ed è generale. Non resterà per tanto tempo l’esperienza privata e rischiosa di chi ha, come dire, toccato "la vita violenta". Non vi illudete. E voi siete, con la scuola, la televisione, la pacatezza dei vostri giornali, voi siete i grandi conservatori di questo ordine orrendo basato sull’idea di possedere e sull’idea di distruggere. Beati voi che siete tutti contenti quando potete mettere su un delitto la sua bella etichetta. A me questa sembra un’altra, delle tante operazioni della cultura di massa. Non potendo impedire che accadano certe cose, si trova pace fabbricando scaffali.
Ma abolire deve per forza dire creare, se non sei un distruttore anche tu. I libri per esempio, che fine fanno? Non voglio fare la parte di chi si angoscia più per la cultura che per la gente. Ma questa gente salvata, nella tua visione di un mondo diverso, non può essere più primitiva (questa è un’accusa frequente che ti viene rivolta) e se non vogliamo usare la repressione "più avanzata"...
Che mi fa rabbrividire.
Se non vogliamo usare frasi fatte, una indicazione ci deve pur essere. Per esempio, nella fantascienza, come nel nazismo, si bruciano sempre i libri come gesto iniziale di sterminio. Chiuse le scuole, chiusa la televisione, come animi il tuo presepio?
Credo di essermi già spiegato con Moravia. Chiudere, nel mio linguaggio, vuol dire cambiare. Cambiare però in modo tanto drastico e disperato quanto drastica e disperata è la situazione. Quello che impedisce un vero dibattito con Moravia ma soprattutto con Firpo, per esempio, è che sembriamo persone che non vedono la stessa scena, che non conoscono la stessa gente, che non ascoltavano le stesse voci. Per voi una cosa accade quando è cronaca, bella, fatta, impaginata, tagliata e intitolata. Ma cosa c’è sotto? Qui manca il chirurgo che ha il coraggio di esaminare il tessuto e di dire: signori, questo è cancro, non è un fatterello benigno. Cos’è il cancro? È una cosa che cambia tutte le cellule, che le fa crescere tutte in modo pazzesco, fuori da qualsiasi logica precedente. È un nostalgico il malato che sogna la salute che aveva prima, anche se prima era uno stupido e un disgraziato? Prima del cancro, dico. Ecco prima di tutto bisognerà fare non solo quale sforzo per avere la stessa immagine. Io ascolto i politici con le loro formulette, tutti i politici e divento pazzo. Non sanno di che Paese stanno parlando, sono lontani come la Luna. E i letterati. E i sociologi. E gli esperti di tutti i generi.
Perché pensi che per te certe cose siano talmente più chiare?
Non vorrei parlare più di me,forse ho detto fin troppo. Lo sanno tutti che io le mie esperienze le pago di persona. Ma ci sono anche i miei libri e i miei film. Forse sono io che sbaglio. Ma io continuo a dire che siamo tutti in pericolo.
Pasolini, se tu vedi la vita così - non so se accetti questa domanda - come pensi di evitare il pericolo e il rischio?
È diventato tardi, Pasolini non ha acceso la luce e diventa difficile prendere appunti. Rivediamo insieme i miei. Poi lui mi chiede di lasciargli le domande. "Ci sono punti che mi sembrano un po’ troppo assoluti. Fammi pensare, fammeli rivedere. E poi dammi il tempo di trovare una conclusione. Ho una cosa in mente per rispondere alla tua domanda. Per me è più facile scrivere che parlare. Ti lascio le note che aggiungo per domani mattina". Il giorno dopo, domenica, il corpo senza vita di Pier Paolo Pasolini era all’obitorio della polizia di Roma.