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giovedì 9 giugno 2016

Una montagna di libri nella valle che resiste i partecipanti

Dire con poche parole chi sono gli autori che partecipano alla nuova edizione di Una montagna di libri nella valle che resiste è impossibile. Alcuni sono scrittori conosciuti, anche molto conosciuti,  altri esordienti, altri ancora giornalisti, scienziati, vignaioli, militanti nella galassia dei cosiddetti "movimenti", artisti, agronomi e musicisti. Spesso un po' di tutto questo insieme.
Abbiamo più volte dibattuto nelle scorse manifestazioni sull'importanza dell'uso delle parole. Ecco, tutte queste persone sono per certo accomunate da un'unica parola: RESISTENZA.
Sono dei "resistenti": nella vita quotidiana, nella loro attività (che sia la ricerca, la scrittura, l'agricoltura, la scienza, la musica, ....), resistenti all'omologazione dilagante e all'idea distorta di sviluppo e progresso che i cosiddetti poteri forti cercano di imporci, a volte con modi subdoli a volte violenti, ovunque e a tutti i livelli.

Siamo felici di ospitarli in questa edizione della Montagna di libri contro il tav che da quest'anno diventa appunto "Una Montagna di libri nella Valle che resiste".

Di seguito alcuni link per accedere a  maggiori informazioni.



Valerio Evangelisti


Sarà con noi con una video intervista 
e in collegamento Skype sabato pomeriggio





Riccardo Borgogno








Corrado Dottori





Riccardo Humbert











Tullio Bugari





Roberto Gastaldo




Enrico Camanni
blog autore











domenica 18 ottobre 2015

Girolamo De Michele su Erri De Luca


La grammatica del dominio e la parola sabotaggio

La grammatica del dominio e la parola sabotaggio
di GIROLAMO DE MICHELE.
«Testimone di una volontà di censura della parola»: così Erri De Luca ha definito se stesso. Non può esserci migliore descrizione di quello che accade non a Erri De Luca, ma attraverso Erri De Luca – se non nelle parole dell’avvocato A.M., che difende la ditta promotrice della causa contro lo scrittore: «chiediamo che la sentenza emani in messaggio, che redarguisca giuridicamente e processualmente». Dunque si chiede che la parola di uno scrittore sia sanzionata in modo esemplare, affinché altri imparino e si regolino di conseguenza: l’inutile ridondanza degli avverbi in -mente risuona come il ribattere del martello sulla testa del chiodo piantato nel legno.
Il capo d’imputazione per aver constatato, rispondendo a una domanda, che gli attrezzi sequestrati ad alcuni compagni «servono a sabotare la TAV» non è “apologia”, ma “istigazione”: la differenza che passa fra un “hanno fatto bene” e un “andate e fate”. Si noti che il reato di istigazione a delinquere «riguarda, o dovrebbe riguardare, solo i comportamenti concretamente idonei a provocare la commissione di altri reati, ferma però la libertà di manifestazione del pensiero garantita dalla Costituzione»: così Giovanni Palombarini [qui], ex Procuratore Generale Aggiunto presso la Corte di Cassazione, che di certo non manca di esperienza e cognizione di causa.
va_di_susa_filo_spinatoChiunque si sia occupato, anche solo per sostenere un esame universitario, di diritto, sa che il diritto è intrecciato con la logica e la retorica, e che questo viluppo non si scioglie: non bastasse il buon senso, si potrebbe citare l’autorità di Norberto Bobbio. La logica (modale) ci insegna a distinguere fra la possibilità e la necessità: e ci ammonisce che chiunque istituisca una connessione fra il presente e il futuro, a meno che non stia enunciando una legge scientifica – ogni corpo immerso in un liquido riceve(rà) una spinta dal basso all’alto ecc. – va a collocarsi nel campo del possibile. Perché l’enunciato possibile assuma valore di necessità, si richiede che l’evento ipotizzato si sia realizzato, e sia empiricamente rilevabile il suo essere avvenuto; altrimenti, che si parli della possibilità che esista un dio, o della possibile presenza di alcuni talleri nelle mie tasche, nessuna formulazione di questa possibilità può dimostrare la necessaria esistenza né del dio, né dei talleri: ce lo insegnò Kant, criticando ex post Anselmo d’Aosta, ma anche, ante litteram, la finanziarizzazione dell’economia. Dunque si richiede che sia avvenuto un sabotaggio, e che sia dimostrata la relazione ci causa-effetto fra il fatto avvenuto e la parola “sabotaggio” pronunciata dallo scrittore.
In aggiunta: perché la parola possa produrre effetti, ovvero slittare dall’enunciativo – “oggi piove” – o dal constatativo – “piove più spesso, negli ultimi tempi” – al performativo, non è sufficiente l’analisi della parola proferita: è richiesto un contesto, e all’interno del contesto un ruolo dell’attore che pronuncia la parola, fra loro coerenti. Tutti i cittadini hanno libertà di parola (si dice): ma non tutti hanno il potere di far si che le parole “vi dichiaro marito e moglie” producano un effetto nel mondo, e nei due soggetti ai quali la parola è indirizzata. D’altro canto, lo stesso sindaco o sacerdote devono usare parole precise e univoche: “d’ora in poi fate coppia” non sarebbe accettabile come formula che sancisce l’evento del matrimonio.
Dunque: senso preciso delle parole, ruolo dell’enunciatore, relazione fra la parola e l’evento.
La parola “sabotare” ha più di un senso; poiché il Vocabolario Treccani è stato citato in processo e nell’autodifesa di Erri De Luca [La parola contraria, 2015], apriamolo e leggiamo:
1. distruggere o deteriorare gravemente edifici e impianti, opere e servizî militari, intralciare gli spostamenti e i rifornimenti di truppe nemiche, impedire o limitare il funzionamento di servizî pubblici, come azione di lotta o di rappresaglia economica, politica o militare
2. intralciare la realizzazione di qualche cosa, o fare in modo che un disegno, un progetto altrui non abbia successo.
«Rivendico il diritto di adoperare il verbo sabotare coma pare e piace alla lingua italiana, Il suo impiego non è ristretto al significato di danneggiamento materiale, come pretendono i pubblici ministeri. Per esempio: uno sciopero, specialmente a gatto selvaggio, senza preavviso, sabota la produzione di un impianto, di un servizio. [...] L’accusa contro di me sabota il mio diritto costituzionale di parola contraria. [...] I pubblici ministeri esigono che il verbo sabotare abbia un solo significato. In nome della lingua italiana e del buonsenso nego il restringimento di significato». Così De Luca: che rivendica, con spirito meridionale, l’esercizio del diritto di malaugurio: «che la linea Tav in Val di Susa possa essere sabotata, che possa non sbucare dall’altra parte e da nessuna parte. Che un governo di normali capacità di intendere e volere la lasci incompiuta. Che possa essere dichiarata disastro ambientale».
Quello che i PM – e con loro l’avvocato di parte civile – pretendono, non è la condanna di una parola contraria, ma, attraverso tale condanna, il potere di interpretare – di ritagliare, decontestualizzare, risemiotizzare – le parole avverse, ostili, o anche solo sgradite. E anche, il potere di suggerire quali parole, quali figure retoriche, quali citazioni usare, e quali no: «Qualora non avesse voluto commettere questo reato avrebbe potuto citare gli esempi biblici che ha citato in seguito, come le mura di Gerico che crollano solo per le voci e le trombe» [qui]. Una vera e propria grammatica del dominio, all’interno della koiné del Partito della Nazione e delle Grandi Opere Inutili, che emargina le voci di opposizione e riveste quelle consenzienti di panni curiali.
Chi è che dice “sabotare”? Uno scrittore. Si badi bene: il reato di istigazione esiste non perché qualcuno ha detto “sabotare”, ma per il fatto che a dirlo è uno scrittore noto, conosciuto al pubblico, che si presume venda una certa quantità di libri. Lo hanno chiarito per ben due volte i PM: «La libera manifestazione del pensiero di fronte a una manifestazione che ha contenuto intrinseco di illiceità, com’è l’istigare, non può trovare tutela. Quelle parole non sono parole pronunciate da uno qualunque. Quando il signor De Luca parla, le sue parole hanno un peso determinante». Così il PM Rinaudo, nella requisitoria del 21 settembre. Ma in precedenza, all’uscita dall’udienza preliminare del 5 giugno 2014: «Al barbiere di Bussoleno possiamo perdonare se dice di tagliare le reti, a un poeta, a un intellettuale come lui, no» [qui].
Quanti clienti avrà il barbiere di Bussoleno? Non è dato saperlo, ma si può presumere meno dei lettori di Erri De Luca. E soprattutto: chi mai sarebbe così sciocco, suggeriscono i PM, da prestar fede a ciò che dice un “vile meccanico” aduso a lavorare con le mani e non col bene dell’intelletto?
Negli anni Settanta, per costruire l’impianto inquisitorio contro Toni Negri e gli altri compagni del 7 aprile, il giudice Calogero dovette, a sostegno del suo teorema – o “calogerema”, come argutamente disse il filosofo Enzo Melandri – figurarsi l’esistenza di una Organizzazione senza nome, la “misteriosa O.”, che sosteneva sovraordinasse autonomia e Brigate Rosse, e figurarsi al suo vertice Toni Negri: dovette, insomma, narrare un’Histoire d’O., collegare a questa narrazione sparsi reati suggeriti da zelanti pentiti, e distribuire ruoli da protagonista principale, secondari e deuteragonisti vari. E ben prima che questo calogerema crollasse miseramente, apparve e ci apparve un obbrobrio giuridico, prima ancora che logico: ma almeno si fantasticavano relazioni causali verificabili (che infatti furono verificate).
Ancora negli anni Settanta, ci apparve un’enormità inquisitoria la persecuzione dello scrittore e militante rivoluzionario Peter Brückner, per essere stato un suo libro ritrovato in possesso di Ulrike Meinhof: ma almeno c’era un libro che mancava da uno scaffale, ed era in un altro.
Oggi ai PM e alla parte civile non serve né una relazione di causa-effetto, né un indizio. De Luca ha detto “sabotate”, la parola “sabotare” è stata rinvenuta in documenti successivi all’intervista incriminata, sabotaggi sono avvenuti: dunque De Luca ha istigato al sabotaggio. Si badi: non viene esibito un documento nel quale è scritto qualcosa del tipo “come afferma De Luca, la Tav va sabotata”, o “De Luca ce l’ha insegnato”: basta la parola, come diceva un noto venditore di purganti. La parola “sabotare” è un bene proprietario esclusivo di Erri De Luca, ne porta lo stimma, è indice certo di relazione, come lo sarebbe un’impronta digitale o un frammento di DNA? In tutta evidenza, i PM si arrogano, attraverso la condanna a Erri De Luca, il potere di stabilire la proprietà delle parole e il modo in cui esse si propagano, senza bisogno di collegarle a fatti concreti, senza distinguere, per dire, fra parola ed enunciato: una concezione davvero povera dei rapporti fra cose e parole, sia detto per inciso ma non per caso – ma che te lo dico a fare?
val_di_susa_castagnetoDopo l’intervista si sono prodotti episodi… e prima? Post hoc, propter hoc: dopo l’invenzione del fazzoletto, si è cominciato a soffiarsi il naso con esso – prima, non ce lo si soffiava?
Nella primavera 2013 si sono tenute a Bussoleno due grandi e pubbliche assemblee popolari – i cui video, pubblicati dagli stessi No Tav, possono essere consultati qui e qui –, nel corso delle quali la parola “sabotaggio” è stata pronunciata, declinata e interpretata con molta precisione, esplicitando i riferimenti a Gandhi, Nelson Mandela e Aldo Capitini: «il sabotaggio è assalto al funzionamento di un servizio, di un’industria, di un’impresa pubblica o privata, con danno o distruzione, e quindi oltre il limite della legalità. È essa una tecnica della non violenza? È stato risposto che essa lo è solo quando non vi è nessun rischio per l’esistenza di esseri viventi, particolarmente umani. È una delle misure di carattere estremo, quando il danno che viene apportato è superato dal danno che il funzionamento di quel servizio apporta». All’indomani di quelle assemblee fu attuata un’iniziativa di protesta consistente in alcune scritte fatte con le bombolette spray: un’iniziativa che «dà immediatamente seguito al dibattito sul sabotaggio del cantiere e delle ditte coinvolte in questa devastazione. Sabotare e boicottare queste ditte è giusto ed è legittimo», si legge nel comunicato emesso dal campeggio No Tav di Venaus. La parola “sabotaggio”, e anche la sua declinazione, era già presente nelle prese di parola della comunità di Bussoleno: non c’era bisogno di andarla a leggere sull’”Huffington Post” tre mesi dopo.
Chi voglia recarsi a Bussoleno, anche senza frequentare la bottega del barbiere, provi a entrare dal tabaccaio piuttosto che prendere un caffè al bar: e si sentirà osservato, non dallo sguardo fascistoide e truffaldino del solito padre Pio, come accade in mezza Italia, ma da quello di partigiani e partigiane armate, le cui foto decorano e abbelliscono gli ambienti: quella di Bussoleno e della Valle non è certo gente che ha bisogno di farsi dire da altri cos’è giusto fare, e cosa no. E quali relazioni si istituiscono fra la coscienza dell’ingiustizia, e i comportamenti conseguenti.
Ad esempio: cancellare con una spianata di cemento il più antico cimitero merovingio delle Alpi Occidentali, perché alle truppe d’occupazione faceva comodo un parcheggio per i blindati, non è sabotaggio al patrimonio culturale? Ad esempio: portare e abbandonare nei boschi i rocchi di filo spinato dalle farfallette d’acciaio affilate come rasoi usato per la recinzione degli accampamenti dei gendarmi, rendendo i boschi a rischio per i bambini e facendo strage della fauna, o radere al suolo un castagneto di 300 anni davanti all’insediamento delle truppe d’occupazione non è sabotaggio dell’ambiente? Non sono, questi comportamenti, istigazione a una reazione uguale e contraria in difesa del territorio e dei suoi beni?
«Ormai da qualche tempo si ha la sensazione di una complessiva forzatura dell’azione penale quando si leggono le imputazioni ascritte ad alcuni intellettuali o che l’autorità giudiziaria torinese formula nei confronti di giovani e meno giovani protagonisti delle lotte contro la costruzione della linea ferroviaria. Quasi che l’autorità giudiziaria torinese si considerasse investita non solo e non tanto del compito di reprimere i fatti penalmente illeciti, ma anche, immediatamente, della tutela dell’ordine pubblico, così contribuendo, a fianco di tutta una serie di poteri forti interessati alla realizzazione dell’opera, a che i lavori si svolgano rapidamente» – così ancora l’ex procuratore Palombarini. Le parole, le cose e gli enunciati della pubblica accusa al processo De Luca non fanno che rafforzare questo ponderato giudizio sul divenire-gendarme della procura torinese, e aggiungere ombra su ombra al ruolo che gli operatori degli apparati giudiziari si arrogano.
Così come aggiunge ombra su ombra la pavidità di buona parte del ceto intellettuale italiano, incerto fra l’ignavia e una pelosissima solidarietà cui si premettono giudizi negativi su De Luca scrittore dannunziano o sessantottino o quant’altro: meglio occuparsi di altro, o lasciarsi aperta la porta di una mezza ritrattazione attraverso la figura retorica che “ma anche no”, per quei moderatori della propria moderazione che hanno il problema di avere meno piedi della quantità di scarpe che sarebbe d’uopo calzare per non mancare ad alcuno dei salotti letterari che contano. Del resto, quando nel 2013 per la prima volta a Bussoleno fu organizzata un’iniziativa di scrittori in sostegno della Valle – Una montagna di libri –, risuonò forte e chiaro il monito dell’allora premier Monti, per il quale «silenzio del fronte intellettuale favorevole alle grandi opere si può capire visto che la questione crea un forte imbarazzo nella sinistra, come si può anche vedere da chi ci mette la faccia e da chi invece sceglie altre strade o la via dell’ambiguità». Il silenzio attuale spiega quello pregresso: l’ammuina davanti a questioni di poco rilievo come il diritto alla presa di parola contraria e il dovere della militanza intellettuale in direzione ostinata e contraria; ma anche, l’impegno forte e chiaro, senza e e senza ma, nelle discussioni sulla vera identità di Elena Ferrante, sul premio Strega bene comune e sul perché anche quest’anno porcazzozza il Nobel per la letteratura è andato alla persona sbagliata.
val_di_susa_necropoli_merovingiaSia consentito concludere con un aneddoto personale. Quando scrissi il romanzo Scirocco, narrai l’uccisione di un personaggio che (è detto nella nota finale) era ispirato a Yves Guérin-Sérac, figura di spicco dell’eversione neofascista europea. E scrissi con chiarezza che la morte del personaggio era «un auspicio»: così facendo, esercitavo il mio diritto al malaugurio. L’editore preferì sottoporre il manoscritto a un legale, per il timore che il romanzo potesse essere oggetto di querele. L’avvocato mi consigliò di cancellare un paio di parole – una in particolare: dalla frase di Stephen King «in un mondo in cui ci sono Michael Jackson e quello stronzo di Axel Roses, tutto è possibile», di togliere la parola “stronzo”, perché la vicinanza di questa frase col nome di un giornalista italiano noto per la sua suscettibilità avrebbe potuto portare il tale a sentirsi chiamato in causa (non mi fu chiaro se la querela avrebbe riguardato solo me, o anche il Re: fossi stato certo della seconda ipotesi, avrei lasciato la parola solo per poter sedere allo stesso banco degli accusati con lui). L’uccisione del figuro fascista, invece, non era un problema.
Quell’avvocato che mi ha garantito nell’esercizio del mio diritto di malaugurio (e che ho ringraziato per la consulenza legale) è lo stesso A.M. che oggi, patrocinando la ditta italo-francese, chiede «che la sentenza emani in messaggio, che redarguisca giuridicamente e processualmente». Il confine fra il diritto di parola contraria e l’incriminazione e condanna concerne forse (ipotizzo) la differenza delle parcelle che il cliente è in grado di pagare?
La giustizia non si può comprare!, dice il borgomastro in La visita della vecchia signora di Dürrenmat: tutto si può comprare, risponde Claire, la vecchia signora – e così sarà.
Nel dramma teatrale: ma forse anche Dürrenmat è un istigatore.
le foto che illustrano questo articolo sono state scattate dall’autore in Clarea: raffigurano (dall’alto in basso)  la scritta “ALLORA NAPALM” giustapposta da un gendarme a “La Maddalena sarà il vostro Vietnam”, il filo spinato gettato nel bosco, la distruzione del castagneto e la spianata che ha ricoperto il cimitero merovingio


domenica 28 giugno 2015

Maurizio Fratta su "l'altrapagina" giugno 2015 a proposito di Amianto


Amianto
Una montagna di libri contro il TAV
« A Steve McQueen è bastato qualche mese e non era un uomo normale.
Era uno de I magnifici sette , era L’ultimo buscadero . Era bello come un dio .
Eppure a metterlo ko sono bastati tre mesi accanto all’amianto , a contatto con le coibentazioni dei mercantili , quando era un giovane dannato e sbandato .Oppure sarà successo quando non aveva una lira in tasca. Forse sarà successo quando stava  pensando di scegliere se fare l’attore o il piastrellista.
O forse è stato quando ha indossato quella tuta bianco sporco, per evitare ustioni in caso d’incendio,
mentre sfrecciava su un bolide nel circuito delle 24 ore di Le Mans ».
Così incomincia il capitolo che Alberto Prunetti ha voluto inserire nell’ultima ristampa di Amianto Una storia operaia (Edizioni Alegre,2014 ) il libro da lui scritto e dedicato al padre Renato,un uomo normale , operaio tubista e saldatore , di origini livornesi , che dopo aver lavorato in acciaierie e raffinerie di mezza Italia,da Piombino a Casale Monferrato , da Terni fino all’Ilva di Taranto , morì per aver inalato una fibra d’amianto.
Ed stato proprio Alberto Prunetti a leggere quest’ultimo capitolo  nel corso della manifestazione
 Una montagna di libri contro il TAV , l’appuntamento culturale e politico indetto dal Movimento NO TAV  che quest’anno si è tenuto a Bologna presso il centro sociale Vag 61, con la collaborazione di Carmilla , la rivista di critica politica e letteraria fondata dallo scrittore Valerio Evangelisti.
Storie che affondano le loro radici nell’Italia  del « miracolo economico», periodo della nostra storia del secondo dopoguerra che viene ricordato sempre per lo straordinario incremento quantitativo della produzione di merci e quasi mai per i costi umani e per l’avvelenamento dell’ambiente dei quali, soltanto oggi, incominciamo a prendere piena consapevolezza nella loro devastante portata.
 Storie dalle quali riemerge il profilo nobile di una classe operaia , dei tanti  working class heroes  a lungo dimenticati , ma più che mai tornati d’attualità considerando il rapporto tra la crisi economica che infuria nel mondo e lo sfruttamento e l’oppressione dei lavoratori che sussistono a livello internazionale.
Un passato che « oggi si cerca di cancellare» come scrive nella prefazione al libro lo stesso Evangelisti « con ogni possibile sporco espediente, perché in quella condizione esistenziale ,prima che ancora che materiale, risiedeva l’antitesi prima allo sfruttamento ».
E l’amianto  ha fatto da filo conduttore anche nel confronto con la tragica realtà emersa con il caso dell’Eternit di Casale Monferrato, la città diventata simbolo di una morte ad orologeria. che prima ha visto morire i lavoratori della fabbrica e poi le migliaia di cittadini ammalatisi del mesotelioma  che non da scampo. Vittime che non hanno avuto giustizia ,come ha ricordato Luca dell’Associazione Voci della Memoria di Casale Monferrato , sottolineando come la sentenza dei giudici della Cassazione -che ha portato alla prescrizione  ed al colpo di spugna sulle responsabilità del magnate dell’amianto Stephan Schmidheneiny condannato in primo e secondo grado a 18 anni di reclusione-sia stata una scelta contro i lavoratori,abbandonati dall’intera classe politica in un paese dove la « fine del lavoro» è coincisa con la svalutazione morale e giuridica ,oltre che economica e politica, dei diritti conquistati nei decenni passati.
Nel dibattito che ne è seguito , importanti contributi sono venuti da chi ha messo in luce che accanto alla nocività della  lavorazione nei vari cicli industriali (edilizia,alimentare,costruzioni navali e ferroviarie, in primis l’ecatombe degli operai delle Officine Grandi Riparazioni delle Ferrovie di Bologna e di Foligno ) l’amianto è stato per anni adoperato nei freni e nelle frizioni delle automobili; ma anche dove meno ce lo si potrebbe aspettare come per esempio negli imballaggi o nelle colorazione dei tessuti,nei phon per asciugare i capelli  o come isolante negli elettrodomestici. Per non dire delle tante mogli,madri e figlie che in contatto con le fibre di amianto sono venute lavando,asciugando e stirando le tute blu dei loro uomini.

Un campo, quello della esposizione della popolazione ai rischi della contaminazione della fibra killer che è un capitolo tutto da scrivere,considerando che proprio l’Italia ne è stata uno dei maggiori produttori ed utilizzatori.
Tutte storie che oggi trovano una congiunzione in Val di Susa.
Fulvio Perini , già dirigente della CGIL piemontese, una vita spesa in difesa del diritto alla salute nei luoghi di lavoro, ha evidenziato , con una serie di dati particolarmente accurati,quanto sia grave il rischio di una massiva contaminazione da amianto derivante dall’opera di perforazione del tunnel della linea Alta Velocità che dovrebbe collegare Lione a Torino.
A cominciare dal fatto che lo scavo della galleria si realizzerebbe  in uno dei territori  dove la presenza di fibre di asbesto, per la presenza di rocce di serpentino, è tra le più consistenti di tutte le Alpi, in una valle che ha la stessa conformazione geologica delle valli confinanti dove sono state chiuse nel passato imponenti attività estrattive perché disperdevano fibre tra le più nocive.
Un carico ambientale naturale al quale si sono sommati i materiali estratti dagli scavi necessari per la costruzione delle tante opere che interessano quel territorio : dal traforo internazionale del Fréjus alla gallerie dell’ autostrada,dalle centrali elettriche edificate in caverne all’ impiego delle coibentazioni  nelle tante industrie siderurgiche una volta presenti lungo tanta parte della Valsusa.
Materiali poi riutilizzati o dispersi malamente  nell’ambiente.
Un lavoro,quello di Perini, sotto traccia, frutto della collaborazione con  esperti e studiosi che colma il vuoto derivante dalla sostanziale rinuncia delle autorità pubbliche –come  le Asl o le Agenzie regionali per il controllo dell’ambiente-  ad una efficace e puntuale azione di controllo e che  dovrebbe essere preso in seria considerazione da quanti, come gli operai e gli agenti della pubblica sicurezza, sono attualmente impegnati nel cantiere della TAV in Clarea.
«Le perforazioni e la polverizzazione di giacimenti di amianto - ha scritto Erri De Luca nel pamphlet  La Parola contraria- fanno inorridire chiunque abbia notizia del guasto micidiale di uno spargimento delle sue fibre tossiche. La Val di Susa si batte contro il disastro per scongiuralo, per non doverlo piangere dopo. Si tratta della più intensa e durevole lotta di prevenzione popolare».
Parole ed azioni che tutti dovrebbero far proprie.

Maurizio Fratta

mercoledì 1 aprile 2015

Io sono stupido e cattivo di Slavoj Žižek


da Internazionale n. 1090 20.02.15

La formula di identificazione patetica “Io sono ...” o “Siamo tutti ...” funziona solo entro certi limiti, oltre i quali diventa oscena. Sì, possiamo proclamare “Io sono Charlie” o “Siamo tutti Charlie”, ma le cose iniziano a complicarsi con esempi come “Viviamo tutti a Sarajevo!” (nei primi anni Novanta quando Sarajevo era sotto assedio), oppure “Siamo tutti a Gaza!” (quando Gaza era bombardata dall’esercito israeliano): la realtà del fatto che non siamo tutti a Sarajevo o a Gaza è troppo forte per essere mascherata da una identificazione verbale. Questa identificazione diventa assurda nel caso dei “musulmani” (Muselmannen, i morti viventi di Auschwitz-Birkenau): è impossibile dire “Siamo tutti musulmani!” semplicemente perché ad Auschwitz-Birkenau la disumanizzazione delle vittime si è spinta fino al punto che identificarsi con loro in qualunque modo significativo non è possibile. I “musulmani” erano per l’appunto esclusi dallo spazio simbolico dell’identificazione di gruppo, ed è per questo che sarebbe stato assolutamente osceno proclamare “Siamo tutti Muselmannen!”: possiamo dirlo, ma chi è escluso dalla categoria di soggetti così identificati sono proprio i “musulmani”, vale a dire quelli con cui vogliamo identificarci (all’estremo opposto, sarebbe anche ridicolo affermare la nostra solidarietà con le vittime dell’11 settembre dichiarando ”Siamo tutti newyorkesi”: milioni di persone nel terzo mondo direbbero con enfasi “Ci piacerebbe moltissimo essere newyorkesi, dateci un visto! “).

Lo stesso vale per la strage di Charlie Hebdo: possiamo tutti identificarci facilmente con Charlie, ma troveremmo molto più difficile, addirittura imbarazzante, gridare pateticamente “Siamo tutti di Baga!”, manca semplicemente una base per l’identificazione(per coloro chi non lo sapesse: Baga è una cittadina nel nordest della Nigeria di cui Boko haram ha ucciso tutti i duemila abitanti, un fatto che sarebbe piuttosto difficile “capire” come una forma di difesa dal colonialismo imperialista). Il nome Boko haram può essere approssimativamente tradotto come “l’istruzione occidentale è proibita”,  in particolare l'istruzione delle donne. Come spiegare allora il fatto bizzarro di un grande movimento sociopolitico il cui primo punto programmatico è la regolamentazione gerarchica dei rapporti tra i due sessi? L’interrogativo, insomma, è: perché i musulmani, che indubbiamente sono stati esposti a sfruttamento, dominio e altri aspetti distruttivi e umilianti del colonialismo, prendono di mira nella loro risposta quella che è (almeno per noi) la parte migliore del retaggio occidentale, il nostro egualitarismo e le nostre libertà personali, compresa la libertà di deridere tutte le autorità? La risposta più ovvia sarebbe che hanno scelto bene il loro bersaglio: ciò che rende l'occidente democratico così intollerabile non è solo che pratica lo sfruttamento e il dominio violento, ma che, aggiungendo al danno la beffa, presenta questa realtà brutale con la maschera del suo contrario, della libertà, dell'uguaglianza e della democrazia.

Torniamo allo spettacolo dell’11 gennaio 2015, con i leader politici di tutto il mondo che si tengono per mano in segno di solidarietà con le vittime del massacro di Parigi, da Cameron a Lavrov, da Netanyahu ad Abbas: se mai c’è stata un'immagine di ipocrita falsità, è questa. Quando la processione di Parigi è passata sotto la sua finestra, un cittadino anonimo ha diffuso l'Inno alla gioia di Beethoven, l'inno non ufficiale dell'Unione europea, aggiungendo un tocco di kitsch politico al disgustoso spettacolo messo in scena proprio dai leader che più di tutti sono responsabili del caos in cui ci troviamo. Che dire dell’oscenità del ministro degli Esteri russo Lavrov, accanto a quei dignitari che protestavano per l’uccisione di alcuni giornalisti? Se volesse partecipare a una protesta simile a Mosca (dove sono stati assassinati decine di giornalisti) verrebbe immediatamente arrestato! Che dire dell’oscenità di Netanyahu che si fa largo in prima fila, quando in Israele è proibito perfino citare pubblicamente la nakba (la catastrofe del 1948 per i palestinesi)? Dov’è la tolleranza per il dolore  e la sofferenza dell’altro? E lo spettacolo era letteralmente una messa in scena: nelle immagini diffuse dai mezzi d’informazione sembrava che la fila dei capi di stato e di governo fosse alla testa di una grande folla che percorreva un viale, in segno di solidarietà e unità con il popolo. Solo che l’evento era stato allestito per i fotografi: una foto di tutta la scena dall'alto mostra chiaramente che dietro i politici c'erano solo un centinaio di persone e molti spazi vuoti pattugliati dalla polizia. Di fatto, Charlie Hebdo avrebbe dovuto pubblicare in copertina una grande caricatura per prendere in giro senza ritegno questo evento, con disegni di Netanyahu e Abbas, Lavrov e Cameron e altre coppie che si baciano e si abbracciano calorosamente affilando i coltelli dietro la schiena.

Anche se sono fermamente ateo, credo che questa oscenità sia stata troppo anche per dio, che si è sentito costretto ad intervenire con un’oscenità degna dello spirito di Charlie Hebdo: mentre François Hollande abbracciava Patrick Pelloux, medico e giornalista del settimanale, un uccello ha defecato sulla spalla sinistra del presidente francese con lo staff della rivista che ha dovuto cercare di nascondere le risate. Una risposta veramente divina dalla realtà a quel disgustoso rituale. Ricorda il motivo cristiano della colomba che scende a consegnare un messaggio divino. E poi, in certi paesi, una colomba che ti fa la cacca in testa è un segno di buona fortuna.

Ma c’è un altro elemento dei recenti avvenimenti francesi che è sembrato passare quasi inosservato: non c’erano solo adesivi e manifesti con la scritta “Je suis Charlie”, ma anche adesivi e manifesti con  “Je suis flic”. L'unità di tutta la nazione celebrata in grandi manifestazioni pubbliche non era solo l'unità del popolo che abbracciava tutti i gruppi etnici, le classi e le religioni, ma anche (e forse soprattutto) l'unificazione del paese con le forze dell'ordine e del controllo. La Francia è uno dei pochi paesi occidentali dove i poliziotti sono spesso protagonisti di barzellette irriverenti in cui appaiono stupidi e corrotti (come era prassi comune nei paesi ex comunisti). Quel giorno, sulla scia dell’attentato a Charlie Hebdo, la polizia è stata applaudita e lodata, abbracciata come una madre protettrice, e non solo la polizia ma anche le forze speciali (Crs, che nel 1968 erano state rbattezzate “Crs Ss”), i servizi segreti, l'intero apparato della sicurezza statale. Non c'è posto per Snowden o Manning in questo nuovo universo. O, come ha scritto Jacques-Alain Miller: “Il rancore contro la polizia non è più quello di prima, tranne che per i giovani poveri di origine araba o africana. Una cosa indubbiamente mai vista nella storia francese”. Quella che di tanto in tanto si vede nel mondo e in Francia è, in rari momenti privilegiati, l’entusiastica “osmosi di una popolazione con l’esercito nazionale che la protegge dalle aggressioni esterne. Ma in questo caso stiamo parlando dell’affetto di una popolazione per le forze della repressione interna”. In breve, la minaccia terroristica è riuscita ad ottenere l'impossibile: riconciliare la generazione dei rivoluzionari del '68 con il loro peggior nemico, la polizia. E’ una sorta di versione francese del Patriot Act approvato per acclamazione popolare, con la gente che si offre volontariamente all’oppressione.

È evidente che i momenti estatici delle manifestazioni parigine hanno dato corpo a un trionfo dell'ideologia: hanno unito il popolo contro un nemico che con la sua fascinosa presenza cancella momentaneamente ogni antagonismo. All’opinione pubblica è stata offerta una scelta triste e deprimente: o sei (parte dello stesso organismo di ) un flic o sei (solidale con) un terrorista. Ma come s’inserisce in questa alternativa l'umorismo irriverente di Charlie Hebdo? Per rispondere alla domanda è essenziale avere presente la relazione reciproca tra i dieci comandamenti e i diritti umani come moderna antitesi, che l’esperienza della nostra società democratica e permissiva dimostra ampiamente. I diritti umani in ultima analisi sono semplicemente il diritto di violare i dieci comandamenti. Il “diritto alla privacy” è il diritto all’adulterio, commesso in segreto, quando nessuno ci vede o ha il diritto di indagare nella nostra vita. Il “diritto alla ricerca della felicità e al possesso della proprietà privata” è il diritto di rubare, di sfruttare gli altri. La “libertà di stampa e di espressione” è il diritto di mentire, calunniare e umiliare. Il “diritto dei liberi cittadini di possedere armi” è il diritto di uccidere. E soprattutto il “diritto di credo religioso” è il diritto di venerare falsi dèi. Naturalmente i diritti umani non condonano automaticamente la violazione dei comandamenti, si limitano a tenere aperta una zona grigia marginale che dovrebbe rimanere fuori dalla portata del potere, laico o religioso: in questa zona oscura posso violare i comandamenti, e se il potere indaga e mi sorprende con i pantaloni calati e cerca d’impedire le mie violazioni posso gridare: “È un attacco ai miei diritti fondamentali!”. Il fatto è che per il potere è strutturalmente impossibile tracciare una linea di demarcazione netta e impedire l’abuso di un diritto umano senza limitarne allo stesso tempo l’uso corretto, cioè l’uso che non viola i comandamenti.

È in questa zona grigia che rientra umorismo di Charlie Hebdo. Il settimanale nacque nel 1970 come successore di Hara-Kiri, una rivista messa al bando perché aveva scherzato sulla morte del generale de Gaulle. Quando un lettore accusò Hara-Kiri di essere bête et méchant (stupido e cattivo) la frase fu scelta come slogan ufficiale della rivista ed entrò nella vita quotidiana. È questa la zona grigia di Charlie Hebdo: non una satira benevola ma, letteralmente, stupida e cattiva. Sarebbe stato molto più appropriato per le migliaia di manifestanti dichiarare “Je suis bête et méchant” invece del piatto “Je suis Charlie”. Le manifestazioni parigine di solidarietà sono state effettivamente bêtes et méchants.

Anche se in certe situazioni può apparire rigenerante, l’atteggiamento bête et méchant di Charlie Hebdo è chiaramente limitato dal fatto che la risata di per sé non è liberatoria, ma profondamente ambigua. Il contrasto tra i solenni e aristocratici spartani e gli allegri e democratici ateniesi fa parte della nostra comune visione dell’antica Grecia. Questa visione popolare, tuttavia, non coglie il fatto che gli Spartani, molto orgogliosi della loro severità, mettevano il riso al centro della loro ideologia e della loro prassi perché lo consideravano un potere che aiuta ad accrescere la gloria dello stato (gli ateniesi, al contrario, limitavano legalmente questa risata sguaiata ed eccessiva come una minaccia allo spirito di un rispettoso dialogo democratico in cui non dovrebbe essere permessa nessuna umiliazione dell’avversario). Il tipo di risata degli spartani - l’irrisione di un nemico o di uno schiavo umiliato, per schernire i suoi timori e la sua sofferenza da una posizione di potere - sopravvive ancora oggi: la troviamo, tra l’altro, nei discorsi di Stalin quando si beffa del panico e della confusione dei "traditori", nel torturatore che schernisce i deliri confusi delle sue vittime più morte che vive e nelle belle maniere del gentiluomo che si fa gioco dei goffi tentativi dei suoi servi di imitarlo. Il problema dell'umorismo di Charlie Hebdo non era che esagerava con l’irriverenza, ma che era un eccesso innocuo che si adattava perfettamente al cinico funzionamento egemonico dell'ideologia nelle nostre società. Non rappresentava in alcun modo una minaccia per i potenti, rendeva semplicemente più tollerabile il loro esercizio del potere.
Su questo sfondo si dovrebbe affrontare il tema delicato degli stili di vita. Mentre nelle società laiche e democratiche dell'occidente il potere statale protegge la libertà pubblica e interviene nello spazio privato (per esempio quando sospetta abusi sull'infanzia), queste intrusioni nello spazio domestico, la violazione della sfera privata, non sono ammesse dalla legge islamica, anche se la conformità del comportamento pubblico può essere molto più rigorosa: per la comunità, quello che importa è la prassi sociale del soggetto musulmano - comprese le dichiarazioni verbali - non i suoi pensieri interiori, quali che possano essere. Anche se il Corano dice "chi vuole creda, e chi non vuole respinga la fede", questo diritto a pensare qualunque cosa si desideri non comprende il diritto di esprimere le proprie convinzioni religiose o morali pubblicamente con l'intenzione di convertire la gente a un falso impegno. Per questo i musulmani ritengono impossibile rimanere in silenzio davanti alla blasfemia: la loro reazione è così appassionata perché, per loro, la blasfemia non è né libertà di espressione né la sfida di una nuova verità, ma qualcosa che cerca di distruggere una relazione viva. Dal punto di vista dell'occidente c'è ovviamente un problema con entrambi i termini di questo né/né: e se la libertà di espressione dovesse includere comportamenti che possono distruggere una relazione viva? E se anche una nuova verità potesse avere lo stesso effetto distruttivo? L'universo scientifico non tende forse a questo? E se una nuova consapevolezza etica fa apparire ingiusta la vecchia relazione viva? E se anche una nuova verità potesse avere lo stesso effetto distruttivo? L’universo scientifico non tende forse a questo? E se una nuova consapevolezza etica fa apparire ingiusta la vecchia relazione viva?

Se per i musulmani non solo è impossibile rimanere in silenzio davanti alla blasfemia, ma anche rimanere inattivi - e questa urgenza di fare qualcosa può comportare gesti violenti e omicidi - allora la prima cosa da fare è collocare questo atteggiamento nel suo contesto contemporaneo. Non vale esattamente lo stesso per il movimento antiabortista cristiano? Anche per loro è impossibile rimanere in silenzio davanti a centinaia di migliaia di feti uccisi ogni anno, una strage che paragonano all'olocausto. È qui che comincia la vera tolleranza, la tolleranza di quello che sentiamo impossibile da sopportare (l'impossible-à-supporter, come lo chiama Lacan). E a questo livello il politicamente corretto della sinistra si avvicina al fondamentalismo religioso, con un elenco di cose davanti alle quali è impossibile rimanere in silenzio, come sessismo, razzismo e altre forme di intolleranza. Cosa succederebbe, poniamo, se un giornale scherzasse apertamente sull'olocausto? È facile deridere le norme con cui i musulmani regolano i dettagli della vita quotidiana (una caratteristica, sia detto per inciso, che condividono con il giudaismo), ma che dire dell’elenco politically correct dei tentativi di seduzione che possono essere considerati molestie o delle storielle che sono ritenute razziste o sessiste? Quella che andrebbe sottolineata qui è la contraddizione intrinseca alla posizione della sinistra: la posizione libertaria dell'ironia e dello sberleffo universale, la derisione di tutte le autorità, spirituali e politiche (la posizione incarnata da Charlie Hebdo), tende a scivolare nel suo contrario, un'accentuata sensibilità per il dolore e l'umiliazione dell'altro.

È a causa di questa contraddizione che gran parte della sinistra ha reagito alla strage di Parigi seguendo uno schema prevedibile e deplorevole: anche se sospettavano giustamente che ci fosse qualcosa di profondamente sbagliato nello spettacolo della solidarietà unanime con le vittime, la loro distanza critica ha preso una piega totalmente distorta nel momento in cui sono riusciti a condannare il massacro solo dopo lunghe e noiose precisazioni del tipo "anche noi siamo colpevoli". Questo timore che, condannando apertamente la strage, s'incoraggi in qualche modo il pericolo dell'islamofobia è assolutamente sbagliato sul piano politico ed etico. Non c'è nulla di islamofobico nel condannare risolutamente l'attentato di Parigi, così come non c'è nulla di antisemitico nel condannare con fermezza la politica di Israele nei confronti dei palestinesi. Nel momento in cui si cerca un qualche equilibrio arriva il fallimento politico.

Quanto all'idea che dovremmo contestualizzare e "capire" l'attentato di Parigi, anche questo è del tutto fuorviante. Se mai c'è stata una stupidità assoluta mascherata da profonda saggezza, è il detto: "Un nemico è qualcuno di cui non hai sentito la storia". Il migliore esempio letterario di questa tesi è Frankenstein di Mary Shelley. Shelley fa una cosa che un conservatore non avrebbe mai fatto. Nella parte centrale del romanzo permette al mostro di parlare per se stesso, di raccontare la storia dal suo punto di vista. Questa scelta esprime l'atteggiamento democratico nei confronti della libertà di espressione nella sua versione più radicale: bisognerebbe sentire il punto di vista di tutti. In Frankenstein il mostro non è una cosa, un oggetto orribile che nessuno osa affrontare: è pienamente soggettivizzato. Mary Shelley si muove nella sua testa e si chiede cosa significhi essere etichettato, bollato, oppresso, scomunicato, perfino fisicamente distorto dalla società. Il criminale assoluto può così presentarsi come la vittima assoluta. L'assassino assoluto si rivela un essere profondamente ferito e disperato, che desidera ardentemente compagnia e amore.

Ma questo metodo ha un limite evidente: siamo anche disposti ad affermare che Hitler è un nemico solo perché la sua storia non è stata ascoltata? Per me è vero il contrario, più conosco e capisco Hitler, più è mio nemico. Perché capire il male non significa perdonarlo, significa analizzare come funziona e perché: in questo modo il male non è affatto relativizzato o ammorbidito. Questo significa anche che, affrontando il conflitto israelopalestinese, bisognerebbe attenersi a criteri freddi e spietati, sospendendo l'impulso a cercare di capire la situazione: bisognerebbe resistere incondizionatamente alla tentazione di capire l'antisemitismo arabo come una reazione "naturale" alla triste sorte dei palestinesi, o di capire le misure israeliane come una reazione "naturale" sullo sfondo della memoria dell'olocausto. Non dovrebbe esserci comprensione per il fatto che in molti se non quasi tutti i paesi arabi Hitler è ancora considerato un eroe e i sussidiari riprendono tutti i tradizionali miti antisemitici, dai famigerati e falsi protocolli dei savi di Sion agli ebrei accusati di usare il sangue dei bambini cristiani (o arabi) a scopi sacrificali. Sostenere che questo antisemitismo esprime con una dislocazione la resistenza al capitalismo non lo giustifica in nessun modo (lo stesso vale per l'antisemitismo nazista, che a sua volta traeva energia dalla resistenza anticapitalista): la dislocazione qui non è un'operazione secondaria, ma il gesto fondamentale di una mistificazione ideologica. Quello che questa tesi implica davvero è l'idea che, a lungo termine, l'unico modo per combattere l'antisemitismo non è predicare la tolleranza democratica, ma dare voce in modo diretto alle motivazioni anticapitalistiche che la sostengono.

Il punto centrale è quindi proprio non interpretare o giudicare singoli atti collocandoli in un contesto più ampio, ma estrapolarli dal loro tessuto storico: le azioni dell'esercito israeliano in Cisgiordania non devono essere giudicate sullo sfondo dell'olocausto, e il fatto che molti arabi esaltino Hitler o che in Europa le sinagoghe siano profanate non deve essere giudicato come una reazione sbagliata ma comprensibile a quello che gli israeliani stanno facendo in Cisgiordania. Quando qualunque protesta contro le attività dell'esercito israeliano in Cisgiordania viene condannata come un'espressione di antisemitismo e - almeno implicitamente-equiparata a una difesa dell'olocausto, quando l'ombra dell'olocausto è costantemente evocata per neutralizzare qualunque critica alle operazioni militari e politiche d'Israele, non basta insistere sulla differenza tra l'antisemitismo e la critica di particolari misure dello stato d'Israele: bisognerebbe fare un passo avanti e sostenere che è lo stato di Israele, in questo caso, a profanare la memoria delle vittime dell'olocausto, manipolandole spietatamente e strumentalizzandole per legittimare le sue attuali politiche. Questo significa che bisognerebbe respingere seccamente l'idea stessa di un rapporto logico o politico tra l'olocausto e le attuali tensioni israelopalestinesi. Si tratta di due fenomeni totalmente diversi: il primo appartiene alla storia europea di resistenza conservatrice alle dinamiche della modernizzazione, mentre il secondo è uno degli ultimi capitoli nella storia della colonizzazione. D'altra parte, i palestinesi hanno davanti a sé il difficile compito di accettare che il loro vero nemico non sono gli ebrei, ma gli stessi regimi arabi che manipolano la sorte del po-polo palestinese proprio per impedire la loro radicalizzazione politica fuori da Israele.

Un'aggravante dell'odierna situazione in Europa è la crescita dell'antisemitismo: per esempio a Malmo, in Svezia, la minoranza musulmana aggressiva molesta gli ebrei al punto che hanno paura di camminare per strada nei loro abiti tradizionali. Questi fenomeni dovrebbero essere apertamente e univocamente condannati: la lotta contro l'antisemitismo e la lotta contro l'islamofobia dovrebbero essere considerate due aspetti della stessa lotta. Ben lontana dal rappresentare una posizione utopistica, questa necessità di una lotta comune si basa sulla constatazione che la sofferenza estrema ha conseguenze di vastissima portata. Mi viene in mente un passaggio di Vivere ancora, le memorie di Ruth Kluger sulla esperienza di Auschwitz-Birkenau. Durante una visita in Israele con un amico, la scrittrice incontra un sopravvissuto all'olocausto che parla dei palestinesi della Cisgiordania in termini apertamente razzisti definendoli ladri, pigri e terroristi che vanno cacciati via da quella terra. Il suo amico è sconvolto da tanta furia e le dice che non riesce a capire come una persona che ha vissuto Auschwitz-Birkenau e ne conosce tutte le sofferenze possa parlare in quel modo. Ma Ruth gli risponde che l'orrore estremo di Auschwitz-Birkenau non lo ha reso un luogo capace di purificare le vittime e trasformarle in superstiti eticamente sensibili privi di ogni meschino interesse egoistico. Al contrario, parte dell'orrore di Auschwitz-Birkenau è che ha disumanizzato anche molte delle sue vittime, facendone esseri brutalmente insensibili che non sono più in grado di esercitare l'arte del giudizio etico equilibrato.

La lezione da trarre è che dobbiamo abbandonare l'idea di trovare qualcosa di emancipatore nelle esperienze estreme, come se potessero insegnarci a fare chiarezza e aprire i nostri occhi alla verità ultima di una situazione. Questa, forse, è la lezione più triste del terrore.