SOLIDARIETA' CONCRETA

SOLIDARIETA' CONCRETA

Conto BancoPosta Numero: 1004906838 Intestato a: DAVY PIETRO - CEBRARI MARIA CHIARA

IBAN: IT22L0760101000001004906838 BIC/SWIFT: BPPIITRRXXX

PAYPAL: www.laboratoriocivico.org


mercoledì 1 aprile 2015

Io sono stupido e cattivo di Slavoj Žižek


da Internazionale n. 1090 20.02.15

La formula di identificazione patetica “Io sono ...” o “Siamo tutti ...” funziona solo entro certi limiti, oltre i quali diventa oscena. Sì, possiamo proclamare “Io sono Charlie” o “Siamo tutti Charlie”, ma le cose iniziano a complicarsi con esempi come “Viviamo tutti a Sarajevo!” (nei primi anni Novanta quando Sarajevo era sotto assedio), oppure “Siamo tutti a Gaza!” (quando Gaza era bombardata dall’esercito israeliano): la realtà del fatto che non siamo tutti a Sarajevo o a Gaza è troppo forte per essere mascherata da una identificazione verbale. Questa identificazione diventa assurda nel caso dei “musulmani” (Muselmannen, i morti viventi di Auschwitz-Birkenau): è impossibile dire “Siamo tutti musulmani!” semplicemente perché ad Auschwitz-Birkenau la disumanizzazione delle vittime si è spinta fino al punto che identificarsi con loro in qualunque modo significativo non è possibile. I “musulmani” erano per l’appunto esclusi dallo spazio simbolico dell’identificazione di gruppo, ed è per questo che sarebbe stato assolutamente osceno proclamare “Siamo tutti Muselmannen!”: possiamo dirlo, ma chi è escluso dalla categoria di soggetti così identificati sono proprio i “musulmani”, vale a dire quelli con cui vogliamo identificarci (all’estremo opposto, sarebbe anche ridicolo affermare la nostra solidarietà con le vittime dell’11 settembre dichiarando ”Siamo tutti newyorkesi”: milioni di persone nel terzo mondo direbbero con enfasi “Ci piacerebbe moltissimo essere newyorkesi, dateci un visto! “).

Lo stesso vale per la strage di Charlie Hebdo: possiamo tutti identificarci facilmente con Charlie, ma troveremmo molto più difficile, addirittura imbarazzante, gridare pateticamente “Siamo tutti di Baga!”, manca semplicemente una base per l’identificazione(per coloro chi non lo sapesse: Baga è una cittadina nel nordest della Nigeria di cui Boko haram ha ucciso tutti i duemila abitanti, un fatto che sarebbe piuttosto difficile “capire” come una forma di difesa dal colonialismo imperialista). Il nome Boko haram può essere approssimativamente tradotto come “l’istruzione occidentale è proibita”,  in particolare l'istruzione delle donne. Come spiegare allora il fatto bizzarro di un grande movimento sociopolitico il cui primo punto programmatico è la regolamentazione gerarchica dei rapporti tra i due sessi? L’interrogativo, insomma, è: perché i musulmani, che indubbiamente sono stati esposti a sfruttamento, dominio e altri aspetti distruttivi e umilianti del colonialismo, prendono di mira nella loro risposta quella che è (almeno per noi) la parte migliore del retaggio occidentale, il nostro egualitarismo e le nostre libertà personali, compresa la libertà di deridere tutte le autorità? La risposta più ovvia sarebbe che hanno scelto bene il loro bersaglio: ciò che rende l'occidente democratico così intollerabile non è solo che pratica lo sfruttamento e il dominio violento, ma che, aggiungendo al danno la beffa, presenta questa realtà brutale con la maschera del suo contrario, della libertà, dell'uguaglianza e della democrazia.

Torniamo allo spettacolo dell’11 gennaio 2015, con i leader politici di tutto il mondo che si tengono per mano in segno di solidarietà con le vittime del massacro di Parigi, da Cameron a Lavrov, da Netanyahu ad Abbas: se mai c’è stata un'immagine di ipocrita falsità, è questa. Quando la processione di Parigi è passata sotto la sua finestra, un cittadino anonimo ha diffuso l'Inno alla gioia di Beethoven, l'inno non ufficiale dell'Unione europea, aggiungendo un tocco di kitsch politico al disgustoso spettacolo messo in scena proprio dai leader che più di tutti sono responsabili del caos in cui ci troviamo. Che dire dell’oscenità del ministro degli Esteri russo Lavrov, accanto a quei dignitari che protestavano per l’uccisione di alcuni giornalisti? Se volesse partecipare a una protesta simile a Mosca (dove sono stati assassinati decine di giornalisti) verrebbe immediatamente arrestato! Che dire dell’oscenità di Netanyahu che si fa largo in prima fila, quando in Israele è proibito perfino citare pubblicamente la nakba (la catastrofe del 1948 per i palestinesi)? Dov’è la tolleranza per il dolore  e la sofferenza dell’altro? E lo spettacolo era letteralmente una messa in scena: nelle immagini diffuse dai mezzi d’informazione sembrava che la fila dei capi di stato e di governo fosse alla testa di una grande folla che percorreva un viale, in segno di solidarietà e unità con il popolo. Solo che l’evento era stato allestito per i fotografi: una foto di tutta la scena dall'alto mostra chiaramente che dietro i politici c'erano solo un centinaio di persone e molti spazi vuoti pattugliati dalla polizia. Di fatto, Charlie Hebdo avrebbe dovuto pubblicare in copertina una grande caricatura per prendere in giro senza ritegno questo evento, con disegni di Netanyahu e Abbas, Lavrov e Cameron e altre coppie che si baciano e si abbracciano calorosamente affilando i coltelli dietro la schiena.

Anche se sono fermamente ateo, credo che questa oscenità sia stata troppo anche per dio, che si è sentito costretto ad intervenire con un’oscenità degna dello spirito di Charlie Hebdo: mentre François Hollande abbracciava Patrick Pelloux, medico e giornalista del settimanale, un uccello ha defecato sulla spalla sinistra del presidente francese con lo staff della rivista che ha dovuto cercare di nascondere le risate. Una risposta veramente divina dalla realtà a quel disgustoso rituale. Ricorda il motivo cristiano della colomba che scende a consegnare un messaggio divino. E poi, in certi paesi, una colomba che ti fa la cacca in testa è un segno di buona fortuna.

Ma c’è un altro elemento dei recenti avvenimenti francesi che è sembrato passare quasi inosservato: non c’erano solo adesivi e manifesti con la scritta “Je suis Charlie”, ma anche adesivi e manifesti con  “Je suis flic”. L'unità di tutta la nazione celebrata in grandi manifestazioni pubbliche non era solo l'unità del popolo che abbracciava tutti i gruppi etnici, le classi e le religioni, ma anche (e forse soprattutto) l'unificazione del paese con le forze dell'ordine e del controllo. La Francia è uno dei pochi paesi occidentali dove i poliziotti sono spesso protagonisti di barzellette irriverenti in cui appaiono stupidi e corrotti (come era prassi comune nei paesi ex comunisti). Quel giorno, sulla scia dell’attentato a Charlie Hebdo, la polizia è stata applaudita e lodata, abbracciata come una madre protettrice, e non solo la polizia ma anche le forze speciali (Crs, che nel 1968 erano state rbattezzate “Crs Ss”), i servizi segreti, l'intero apparato della sicurezza statale. Non c'è posto per Snowden o Manning in questo nuovo universo. O, come ha scritto Jacques-Alain Miller: “Il rancore contro la polizia non è più quello di prima, tranne che per i giovani poveri di origine araba o africana. Una cosa indubbiamente mai vista nella storia francese”. Quella che di tanto in tanto si vede nel mondo e in Francia è, in rari momenti privilegiati, l’entusiastica “osmosi di una popolazione con l’esercito nazionale che la protegge dalle aggressioni esterne. Ma in questo caso stiamo parlando dell’affetto di una popolazione per le forze della repressione interna”. In breve, la minaccia terroristica è riuscita ad ottenere l'impossibile: riconciliare la generazione dei rivoluzionari del '68 con il loro peggior nemico, la polizia. E’ una sorta di versione francese del Patriot Act approvato per acclamazione popolare, con la gente che si offre volontariamente all’oppressione.

È evidente che i momenti estatici delle manifestazioni parigine hanno dato corpo a un trionfo dell'ideologia: hanno unito il popolo contro un nemico che con la sua fascinosa presenza cancella momentaneamente ogni antagonismo. All’opinione pubblica è stata offerta una scelta triste e deprimente: o sei (parte dello stesso organismo di ) un flic o sei (solidale con) un terrorista. Ma come s’inserisce in questa alternativa l'umorismo irriverente di Charlie Hebdo? Per rispondere alla domanda è essenziale avere presente la relazione reciproca tra i dieci comandamenti e i diritti umani come moderna antitesi, che l’esperienza della nostra società democratica e permissiva dimostra ampiamente. I diritti umani in ultima analisi sono semplicemente il diritto di violare i dieci comandamenti. Il “diritto alla privacy” è il diritto all’adulterio, commesso in segreto, quando nessuno ci vede o ha il diritto di indagare nella nostra vita. Il “diritto alla ricerca della felicità e al possesso della proprietà privata” è il diritto di rubare, di sfruttare gli altri. La “libertà di stampa e di espressione” è il diritto di mentire, calunniare e umiliare. Il “diritto dei liberi cittadini di possedere armi” è il diritto di uccidere. E soprattutto il “diritto di credo religioso” è il diritto di venerare falsi dèi. Naturalmente i diritti umani non condonano automaticamente la violazione dei comandamenti, si limitano a tenere aperta una zona grigia marginale che dovrebbe rimanere fuori dalla portata del potere, laico o religioso: in questa zona oscura posso violare i comandamenti, e se il potere indaga e mi sorprende con i pantaloni calati e cerca d’impedire le mie violazioni posso gridare: “È un attacco ai miei diritti fondamentali!”. Il fatto è che per il potere è strutturalmente impossibile tracciare una linea di demarcazione netta e impedire l’abuso di un diritto umano senza limitarne allo stesso tempo l’uso corretto, cioè l’uso che non viola i comandamenti.

È in questa zona grigia che rientra umorismo di Charlie Hebdo. Il settimanale nacque nel 1970 come successore di Hara-Kiri, una rivista messa al bando perché aveva scherzato sulla morte del generale de Gaulle. Quando un lettore accusò Hara-Kiri di essere bête et méchant (stupido e cattivo) la frase fu scelta come slogan ufficiale della rivista ed entrò nella vita quotidiana. È questa la zona grigia di Charlie Hebdo: non una satira benevola ma, letteralmente, stupida e cattiva. Sarebbe stato molto più appropriato per le migliaia di manifestanti dichiarare “Je suis bête et méchant” invece del piatto “Je suis Charlie”. Le manifestazioni parigine di solidarietà sono state effettivamente bêtes et méchants.

Anche se in certe situazioni può apparire rigenerante, l’atteggiamento bête et méchant di Charlie Hebdo è chiaramente limitato dal fatto che la risata di per sé non è liberatoria, ma profondamente ambigua. Il contrasto tra i solenni e aristocratici spartani e gli allegri e democratici ateniesi fa parte della nostra comune visione dell’antica Grecia. Questa visione popolare, tuttavia, non coglie il fatto che gli Spartani, molto orgogliosi della loro severità, mettevano il riso al centro della loro ideologia e della loro prassi perché lo consideravano un potere che aiuta ad accrescere la gloria dello stato (gli ateniesi, al contrario, limitavano legalmente questa risata sguaiata ed eccessiva come una minaccia allo spirito di un rispettoso dialogo democratico in cui non dovrebbe essere permessa nessuna umiliazione dell’avversario). Il tipo di risata degli spartani - l’irrisione di un nemico o di uno schiavo umiliato, per schernire i suoi timori e la sua sofferenza da una posizione di potere - sopravvive ancora oggi: la troviamo, tra l’altro, nei discorsi di Stalin quando si beffa del panico e della confusione dei "traditori", nel torturatore che schernisce i deliri confusi delle sue vittime più morte che vive e nelle belle maniere del gentiluomo che si fa gioco dei goffi tentativi dei suoi servi di imitarlo. Il problema dell'umorismo di Charlie Hebdo non era che esagerava con l’irriverenza, ma che era un eccesso innocuo che si adattava perfettamente al cinico funzionamento egemonico dell'ideologia nelle nostre società. Non rappresentava in alcun modo una minaccia per i potenti, rendeva semplicemente più tollerabile il loro esercizio del potere.
Su questo sfondo si dovrebbe affrontare il tema delicato degli stili di vita. Mentre nelle società laiche e democratiche dell'occidente il potere statale protegge la libertà pubblica e interviene nello spazio privato (per esempio quando sospetta abusi sull'infanzia), queste intrusioni nello spazio domestico, la violazione della sfera privata, non sono ammesse dalla legge islamica, anche se la conformità del comportamento pubblico può essere molto più rigorosa: per la comunità, quello che importa è la prassi sociale del soggetto musulmano - comprese le dichiarazioni verbali - non i suoi pensieri interiori, quali che possano essere. Anche se il Corano dice "chi vuole creda, e chi non vuole respinga la fede", questo diritto a pensare qualunque cosa si desideri non comprende il diritto di esprimere le proprie convinzioni religiose o morali pubblicamente con l'intenzione di convertire la gente a un falso impegno. Per questo i musulmani ritengono impossibile rimanere in silenzio davanti alla blasfemia: la loro reazione è così appassionata perché, per loro, la blasfemia non è né libertà di espressione né la sfida di una nuova verità, ma qualcosa che cerca di distruggere una relazione viva. Dal punto di vista dell'occidente c'è ovviamente un problema con entrambi i termini di questo né/né: e se la libertà di espressione dovesse includere comportamenti che possono distruggere una relazione viva? E se anche una nuova verità potesse avere lo stesso effetto distruttivo? L'universo scientifico non tende forse a questo? E se una nuova consapevolezza etica fa apparire ingiusta la vecchia relazione viva? E se anche una nuova verità potesse avere lo stesso effetto distruttivo? L’universo scientifico non tende forse a questo? E se una nuova consapevolezza etica fa apparire ingiusta la vecchia relazione viva?

Se per i musulmani non solo è impossibile rimanere in silenzio davanti alla blasfemia, ma anche rimanere inattivi - e questa urgenza di fare qualcosa può comportare gesti violenti e omicidi - allora la prima cosa da fare è collocare questo atteggiamento nel suo contesto contemporaneo. Non vale esattamente lo stesso per il movimento antiabortista cristiano? Anche per loro è impossibile rimanere in silenzio davanti a centinaia di migliaia di feti uccisi ogni anno, una strage che paragonano all'olocausto. È qui che comincia la vera tolleranza, la tolleranza di quello che sentiamo impossibile da sopportare (l'impossible-à-supporter, come lo chiama Lacan). E a questo livello il politicamente corretto della sinistra si avvicina al fondamentalismo religioso, con un elenco di cose davanti alle quali è impossibile rimanere in silenzio, come sessismo, razzismo e altre forme di intolleranza. Cosa succederebbe, poniamo, se un giornale scherzasse apertamente sull'olocausto? È facile deridere le norme con cui i musulmani regolano i dettagli della vita quotidiana (una caratteristica, sia detto per inciso, che condividono con il giudaismo), ma che dire dell’elenco politically correct dei tentativi di seduzione che possono essere considerati molestie o delle storielle che sono ritenute razziste o sessiste? Quella che andrebbe sottolineata qui è la contraddizione intrinseca alla posizione della sinistra: la posizione libertaria dell'ironia e dello sberleffo universale, la derisione di tutte le autorità, spirituali e politiche (la posizione incarnata da Charlie Hebdo), tende a scivolare nel suo contrario, un'accentuata sensibilità per il dolore e l'umiliazione dell'altro.

È a causa di questa contraddizione che gran parte della sinistra ha reagito alla strage di Parigi seguendo uno schema prevedibile e deplorevole: anche se sospettavano giustamente che ci fosse qualcosa di profondamente sbagliato nello spettacolo della solidarietà unanime con le vittime, la loro distanza critica ha preso una piega totalmente distorta nel momento in cui sono riusciti a condannare il massacro solo dopo lunghe e noiose precisazioni del tipo "anche noi siamo colpevoli". Questo timore che, condannando apertamente la strage, s'incoraggi in qualche modo il pericolo dell'islamofobia è assolutamente sbagliato sul piano politico ed etico. Non c'è nulla di islamofobico nel condannare risolutamente l'attentato di Parigi, così come non c'è nulla di antisemitico nel condannare con fermezza la politica di Israele nei confronti dei palestinesi. Nel momento in cui si cerca un qualche equilibrio arriva il fallimento politico.

Quanto all'idea che dovremmo contestualizzare e "capire" l'attentato di Parigi, anche questo è del tutto fuorviante. Se mai c'è stata una stupidità assoluta mascherata da profonda saggezza, è il detto: "Un nemico è qualcuno di cui non hai sentito la storia". Il migliore esempio letterario di questa tesi è Frankenstein di Mary Shelley. Shelley fa una cosa che un conservatore non avrebbe mai fatto. Nella parte centrale del romanzo permette al mostro di parlare per se stesso, di raccontare la storia dal suo punto di vista. Questa scelta esprime l'atteggiamento democratico nei confronti della libertà di espressione nella sua versione più radicale: bisognerebbe sentire il punto di vista di tutti. In Frankenstein il mostro non è una cosa, un oggetto orribile che nessuno osa affrontare: è pienamente soggettivizzato. Mary Shelley si muove nella sua testa e si chiede cosa significhi essere etichettato, bollato, oppresso, scomunicato, perfino fisicamente distorto dalla società. Il criminale assoluto può così presentarsi come la vittima assoluta. L'assassino assoluto si rivela un essere profondamente ferito e disperato, che desidera ardentemente compagnia e amore.

Ma questo metodo ha un limite evidente: siamo anche disposti ad affermare che Hitler è un nemico solo perché la sua storia non è stata ascoltata? Per me è vero il contrario, più conosco e capisco Hitler, più è mio nemico. Perché capire il male non significa perdonarlo, significa analizzare come funziona e perché: in questo modo il male non è affatto relativizzato o ammorbidito. Questo significa anche che, affrontando il conflitto israelopalestinese, bisognerebbe attenersi a criteri freddi e spietati, sospendendo l'impulso a cercare di capire la situazione: bisognerebbe resistere incondizionatamente alla tentazione di capire l'antisemitismo arabo come una reazione "naturale" alla triste sorte dei palestinesi, o di capire le misure israeliane come una reazione "naturale" sullo sfondo della memoria dell'olocausto. Non dovrebbe esserci comprensione per il fatto che in molti se non quasi tutti i paesi arabi Hitler è ancora considerato un eroe e i sussidiari riprendono tutti i tradizionali miti antisemitici, dai famigerati e falsi protocolli dei savi di Sion agli ebrei accusati di usare il sangue dei bambini cristiani (o arabi) a scopi sacrificali. Sostenere che questo antisemitismo esprime con una dislocazione la resistenza al capitalismo non lo giustifica in nessun modo (lo stesso vale per l'antisemitismo nazista, che a sua volta traeva energia dalla resistenza anticapitalista): la dislocazione qui non è un'operazione secondaria, ma il gesto fondamentale di una mistificazione ideologica. Quello che questa tesi implica davvero è l'idea che, a lungo termine, l'unico modo per combattere l'antisemitismo non è predicare la tolleranza democratica, ma dare voce in modo diretto alle motivazioni anticapitalistiche che la sostengono.

Il punto centrale è quindi proprio non interpretare o giudicare singoli atti collocandoli in un contesto più ampio, ma estrapolarli dal loro tessuto storico: le azioni dell'esercito israeliano in Cisgiordania non devono essere giudicate sullo sfondo dell'olocausto, e il fatto che molti arabi esaltino Hitler o che in Europa le sinagoghe siano profanate non deve essere giudicato come una reazione sbagliata ma comprensibile a quello che gli israeliani stanno facendo in Cisgiordania. Quando qualunque protesta contro le attività dell'esercito israeliano in Cisgiordania viene condannata come un'espressione di antisemitismo e - almeno implicitamente-equiparata a una difesa dell'olocausto, quando l'ombra dell'olocausto è costantemente evocata per neutralizzare qualunque critica alle operazioni militari e politiche d'Israele, non basta insistere sulla differenza tra l'antisemitismo e la critica di particolari misure dello stato d'Israele: bisognerebbe fare un passo avanti e sostenere che è lo stato di Israele, in questo caso, a profanare la memoria delle vittime dell'olocausto, manipolandole spietatamente e strumentalizzandole per legittimare le sue attuali politiche. Questo significa che bisognerebbe respingere seccamente l'idea stessa di un rapporto logico o politico tra l'olocausto e le attuali tensioni israelopalestinesi. Si tratta di due fenomeni totalmente diversi: il primo appartiene alla storia europea di resistenza conservatrice alle dinamiche della modernizzazione, mentre il secondo è uno degli ultimi capitoli nella storia della colonizzazione. D'altra parte, i palestinesi hanno davanti a sé il difficile compito di accettare che il loro vero nemico non sono gli ebrei, ma gli stessi regimi arabi che manipolano la sorte del po-polo palestinese proprio per impedire la loro radicalizzazione politica fuori da Israele.

Un'aggravante dell'odierna situazione in Europa è la crescita dell'antisemitismo: per esempio a Malmo, in Svezia, la minoranza musulmana aggressiva molesta gli ebrei al punto che hanno paura di camminare per strada nei loro abiti tradizionali. Questi fenomeni dovrebbero essere apertamente e univocamente condannati: la lotta contro l'antisemitismo e la lotta contro l'islamofobia dovrebbero essere considerate due aspetti della stessa lotta. Ben lontana dal rappresentare una posizione utopistica, questa necessità di una lotta comune si basa sulla constatazione che la sofferenza estrema ha conseguenze di vastissima portata. Mi viene in mente un passaggio di Vivere ancora, le memorie di Ruth Kluger sulla esperienza di Auschwitz-Birkenau. Durante una visita in Israele con un amico, la scrittrice incontra un sopravvissuto all'olocausto che parla dei palestinesi della Cisgiordania in termini apertamente razzisti definendoli ladri, pigri e terroristi che vanno cacciati via da quella terra. Il suo amico è sconvolto da tanta furia e le dice che non riesce a capire come una persona che ha vissuto Auschwitz-Birkenau e ne conosce tutte le sofferenze possa parlare in quel modo. Ma Ruth gli risponde che l'orrore estremo di Auschwitz-Birkenau non lo ha reso un luogo capace di purificare le vittime e trasformarle in superstiti eticamente sensibili privi di ogni meschino interesse egoistico. Al contrario, parte dell'orrore di Auschwitz-Birkenau è che ha disumanizzato anche molte delle sue vittime, facendone esseri brutalmente insensibili che non sono più in grado di esercitare l'arte del giudizio etico equilibrato.

La lezione da trarre è che dobbiamo abbandonare l'idea di trovare qualcosa di emancipatore nelle esperienze estreme, come se potessero insegnarci a fare chiarezza e aprire i nostri occhi alla verità ultima di una situazione. Questa, forse, è la lezione più triste del terrore. 

Nessun commento:

Posta un commento