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venerdì 24 aprile 2015

25 aprile, settanta anni fa


10 gennaio 1944, Torino.

Oggi, due ottime notizie. Valle non è stato arrestato o, come prevedevo, è riuscito a cavarsela; comunque è fuori. E Zama non è morto: lasciato come tale nella paglia d’una mangiatoia in una grangia, dopo aver ingerito una buona dose di morfina allo scopo di finirla più in fretta, sentì arrivare i tedeschi, che però non lo videro, benché si sedessero proprio sopra la mangiatoia. Dopo un po’ i tedeschi se ne andarono. Visto che non riusciva a morire, anzi si sentiva meglio, quando la via fu libera Zama si trascinò fuori a cercare aiuto: ora è praticamente fuori pericolo. Sembra una storiella e invece è la verità. È stato Giorgio a darmi la notizia con soddisfazione molto imperfettamente velata dal cinismo2 con cui si difende, e ha concluso: – Dillo a Mussa e lo farai contento: ci teneva tanto. – Non ho tardato a dirglielo: e la sua gioia non è stata meno viva di quel ch’era stato prima il suo dolore.


12 gennaio. Giornata d’allarmi.

Ero appena tornata dal far la spesa (e dal metter frattanto manifestini vari nelle sporte delle donne al mercato) quando ho ricevuto una strana telefonata da Ettore: dall’ufficio mi diceva che «la zia Ada stava male». È una frase convenzionale da cui ho capito che c’era qualcosa che non andava; e, senza pensarci tanto, mi son precipitata verso l’E.I.A.R.: ma non ho potuto arrivarci perché le strade intorno erano tutte sbarrate. Stavano facendo un «rastrellamento» (è la prima volta che sento questo termine): bloccano un gruppo d’isolati e perquisiscono le case a una a una, in cerca d’armi, di renitenti alla leva, di fuorilegge.
Se lo fanno in via Fabro, stiamo freschi. Son corsa a casa, ho cacciato via tutti, ho cercato di nascondere alla meglio il materiale e la stampa. Se saltava fuori qualche complicazione per Ettore e venivano a perquisire? Invece non è accaduto nulla, e dopo un po’ Ettore è tornato a casa tranquillamente. È una vera fortuna che l’E.I.A.R. sia un servizio statale e i suoi tecnici sian quindi «tabù»: han persino il permesso di circolare col coprifuoco: il che potrà essere molto utile.
Ma verso l’una del pomeriggio, altro allarme. Vittorio aveva un appuntamento in via Roma con un comunista del C.L.N.  con cui doveva andare poi in un certo posto. Questo posto si trovava in un quartiere che sarebbe stato «rastrellato» nel pomeriggio. Bisognava quindi impedire che ci andassero. Sono andata anch’io all’appuntamento, ho attirato l’attenzione di Vittorio, gli ho spiegato la situazione, e li ho fatti venire... a casa mia. La cosa può sembrare assurda, ma non c’era molto da scegliere; e, del resto,  è andata bene.
I due se n’erano andati da poco e mi preparavo a far la minestra, quand’è arrivato Ormea a dirmi qualcosa. E dopo un mezz’oretta è tornato ad avvertirmi che, secondo lui, la casa era sorvegliata, perché c’era nel giardino un tipo poco rassicurante, ecc. ecc. E dopo un momento, ecco arrivare Mussa con le stesse impressioni. Non ho voluto credergli e li ho cacciati via tutti e due. Ma forse han ragione. Sarà meglio che ce ne andiamo per un po’ di giorni. Domani mattina avvertirò gli amici e alla sera partiremo per Meana. Se non sarà troppo tardi. Ma inquietarsi non serve a nulla.


21 gennaio, Meana.

Oggi, a scuola, alla «Principe di Piemonte», ricevo in classe una circolare in cui si chiede a tutti i professori di dichiarare se han figli del 1925 e se, in tal caso, si son presentati alla leva. Sono andata diritta dal preside – che è un noioso pedante, pieno della propria autorità, ma che non mi sembra un’anima nera – e gli ho detto semplicemente: – So di parlare a un galantuomo; ho un figlio del ‘25; e non si è presentato.
Ha levato su di me gli occhi, evidentemente colpito e spaventato (è chiaro che non sapeva affatto chi fossi; ero un’insegnante della sua scuola e basta). – E dov’è? – ha chiesto. Questo certo non glielo potevo dire, anche se lo credo in fondo un brav’uomo. – Non lo so, – ho risposto, guardandolo fisso finché ha dovuto abbassare gli occhi. Giocherellava con le carte, ma ho visto che la sua mano tremava. – Già, – ha detto dopo un momento – bisognerà pur che dica qualcosa al Provveditore. Si potrebbe dire, per esempio, che suo figlio era nell’Italia del Sud quand’è stata invasa e che lei non ne ha più saputo niente. – Certo, – ho risposto – dica pur così. E grazie. – E me ne sono andata: non pensavo di trovare in lui addirittura un aiuto: pieno di paura, sì, ma dotato d’una certa inventiva. Del resto, preside a parte, l’atmosfera di questa scuola non mi dispiace. Negli ultimi giorni le classi superiori si son sensibilmente ridotte: i ragazzi in età di leva son scomparsi, uno dopo l’altro. Ho l’impressione che non se ne sia presentato nemmeno uno.

da Diario Partigiano,  Ada Gobetti

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